Appeso al soffitto con una rete di catene rugginose c'era un rettile impagliato, che possedeva sei paia di minuscole ma coloratissime ali piumate e una settima molto più grande, che spuntava dal cocuzzolo della sua testa dal lungo grugno. Una mummia seduta su una sedia con aria profondamente annoiata. Sugli scaffali dietro il gigante essiccato c'erano decine di barattoli, urne, fiaschi e altri contenitori più strani, nei quali era conservata una bizzarra collezione di oggetti sia naturali che innaturali. In uno c'era un uccello con la testa di neonato (o un neonato con il corpo da uccello) con una bella cuffietta di pizzo rosa. In un altro c'era una creatura con un'aureola di tentacoli, in posa contro un paesaggio marino dipinto. Molti degli oggetti non erano nemmeno cose che Candy riuscisse a definire, strane forme incrostate che avrebbero potuto essere le parti rugginose di qualche antico strumento a orologeria o i resti fossilizzati di antichi crostacei o la curiosa mescolanza delle due cose.
Su un'altra parete, una collezione di maschere era stata appesa secondo una disposizione non particolarmente artistica; e tra di esse c'erano bambole in abito da sposa, con le trine un tempo verginali ingiallite dal tempo.
«Questa è la Wunderkammen»spiegò lo scimmio. «Credo che sia una parola che viene dall'Altromondo. Vuol dire un Gabinetto delle Meraviglie.» Era la collezione più strana che Candy avesse mai visto, e profondamente arbitraria: come se qualcuno si fosse limitato a riunire in una sola stanza ogni cosa strana e insolita sulla quale avesse mai posato le mani o lo sguardo.
Il pezzo principale era un totem di Abarat scolpito nel legno e dipinto a tinte sgargianti: una tribù di creature sedute una sulle spalle dell'altra, alcune accovacciate comode, altre in precario equilibrio. Il palo era troppo alto per essere contenuto nella sala. Nel soffitto era stato fatto un buco, e il totem si innalzava per altri due o tre metri.
Nonostante la necessità di muoversi prima che Houlihan li raggiungesse, il palo era troppo straordinario perché Candy passasse oltre.
«Che cos'è?» chiese a Filth.
«È una tribù» rispose lui. «Un'intera tribù congelata.»
«Perché?»
«Per punizione. Si chiamano i Totemix. E combinano dei gran guai, lascia che te lo dica.»
Lo sguardo di Candy scorse su e giù lungo i Totemix, passando da un volto all'altro. C'erano ogni genere di stranezze nell'insieme: uomini folli e donne pazze, bambini strabici e cani smorfiosi. Stava ancora guardando quell'incredibile collezione quando udì la voce dell'Uomo Incrociato alle sue spalle.
«Bene bene...» disse Houlihan. «Guarda un po'! Hai un certo fiuto per gli oggetti di potere, Quackenbush!»
«Davvero?»
«Prima la Chiave...»
«Non sono stata io.»
«Ora la collezione privata di cose sbalorditive di Re Claus, eh? La sua Wunderkammen. Io non l'avrei mai trovata se non avessi dovuto seguire te. Carrion sarà molto soddisfatto. Molto soddisfatto. Potrebbe perfino decidere di non farti giustiziare.» Houlihan sorrise. «Anche se ne dubito» riprese, simulando in modo passabile il dispiacere. «Nuth! Yitter! Portatela via. Ma fate attenzione a lei, capito?»
I due ricuciti più grossi ringhiarono in risposta e si avvicinarono a Candy con una strana cautela, come se avessero paura di lei o di qualcosa lì attorno.
Ma proprio mentre le posavano le mani addosso, lo scimmio levò uno strillo così improvviso e forte che fece loro perdere la presa sulla preda. Candy fu rapida. Si scansò dalle loro dita protese e corse alla porta. Houlihan le bloccò il passaggio, con un sorriso compiaciuto sul volto a scacchi.
«Questa volta no» disse.
Con fare noncurante la risospinse nella stanza, e Candy cadde contro un tavolo sul quale era disposto un gruppo di dei e dee scolpiti nel legno e coloratissimi. Le statue caddero a terra, e Candy cadde con loro. Nel farlo avrebbe giurato di sentire delle voci vicine, che si esprimevano per frasi fatte.
«Lordy Lou!» disse qualcuno.
«Ecco che cade!» disse qualcun altro.
«Che goffa, eh?» disse un altro ancora.
Candy raccolse una delle statue prendendola per le gambe di legno e la osservò.
«Hai parlato?» le disse.
La statua per tutta risposta la fissò con occhi morti. No, non aveva parlato. E allora, cos'era stato?
«Prendetela!» urlò Houlihan ai suoi ricuciti, e il più grosso dei due le si scagliò contro. Candy cercò di difendersi con la statua, ma Yitter - se era Yitter - gliela strappò via e le sferrò un colpo che la fece volare per metà stanza. Candy atterrò alla base del totem.
Houlihan balzò verso di lei.
«È finita, ragazza» disse. «Sei mia.»
Fu interrotto da un turbine scuro che cadde dal soffitto. Era Filth. L'urto scagliò l'Uomo Incrociato all'indietro mentre Filth lo prendeva a pugni.
«Toglietemi di dosso questo gorilla!» urlò Houlihan.
«Non sono un gorilla!» strillò Filth. «Sono uno scimmio! SCIM! MIO!»
Candy sapeva di avere solo pochi istanti di tregua prima che i ricuciti togliessero Filth di dosso a Houlihan. Si protese e afferrò il totem, decisa a rimettersi in piedi. Non appena sfiorò l'oggetto, però, sentì una scossa nella mano che le percorse il braccio, la spalla, il collo e le penetrò nella testa, dove esplose in una bomba di sensazioni stranamente piacevoli. Anche se ovunque era il caos, i suoi pensieri erano quieti e tranquilli. Si guardò il palmo della mano e con gran stupore vide che era luminoso, quasi d'oro, in effetti, e la mappa della sua anatomia - ossa e nervi e tutto il resto - le era all'improvviso visibile. Non fu sconvolgente vedere la sua mano così. Piuttosto il contrario. Fu meraviglioso. In uno spazio senza tempo dove non c'erano Uomini Incrociati né ricuciti, scrutò le forme intricate del suo palmo con dolce meraviglia.
La visione non durò a lungo. Non voleva perderla, così posò di nuovo la mano sul totem, sperando che il rinnovato contatto accendesse quel fuoco d'oro una seconda volta. E lo fece! Non appena toccò le sculture, un'ondata fresca di sensazioni le attraversò la testa e vi fiorì.
Sentì un fiotto di energia contro il viso, come un respiro esalato. E con esso il rumore delle voci, le stesse voci che avevano parlato in modo così spiacevole quando era caduta: ma ora parlavano con quella che sembrava una sola parola di tante sillabe, della quale riconobbe solo qualche suono decifrabile.
«...camunanotafreexamalesatacpolastafan...»
Guardò in alto, e alla sua mente, che da quando aveva varcato la soglia del palazzo lottava con il mistero di cose a metà ricordate, fu concesso all'improvviso un fiotto di comprensione.
Totemix! Filth aveva detto Totemix! Quello era il nome delle creature che parlottavano. Erano una tribù chiamata Totemix! Ed erano lì nel palo, riscosse dal loro sonno dal tocco del suo palmo!
Le vide muoversi, spostarsi nella pelle di vernice, gli occhi dardeggianti, le bocche dilatate, aperte, sorridenti mentre l'incantesimo della vita spostava il palo dal punto in cui Candy l'aveva toccato. Ogni volta che strisciava di qualche centimetro, un nuovo membro o un organo ritrovava la vita. Un braccio si distese, un piede agitò le dita a tre falangi; un trio di occhi mise a fuoco il mondo sul quale si erano ridestati. Nessuno tra i Totemix era del tutto umano; ma d'altra parte nessuno era del tutto animale.
Vide una creatura con lunghi arti e il corpo tondo, con un solo corno sulla zucca; un altro aveva tre teste vagamente feline, ma indossava un abito alla moda: un terzo e un quarto erano uniti per il cranio, e i loro tratti erano indistinguibili.
Le prime creature a sfuggire dalla strana prigione furono gli uccelli, o quelli di forma vagamente pennuta. Balzarono fuori dal loro stato solido con grida grate, e subito si levarono in alto nella sala e volteggiarono attorno al soffitto a cupola. Le loro voci sembravano un richiamo alla vita, che accelerò il risveglio degli altri Totemix.
Una creatura con il corpo serpentino e le ali vermiglie volò a unirsi all'assemblea degli uccelli; una creatura dal naso che si poteva usare come un violino sbucò dal palo e suonò la sua strana musica. Una donna irta di pelliccia bianca si gettò contro la parete e fece una capriola. Ovunque c'erano tripudio e meraviglia, urla di gioia e strilli di piacere.
Nessuna delle creature sembrava arrabbiata o pronta a fare del male, ma l'Uomo Incrociato tenne comunque le distanze. Ordinò di nuovo ai ricuciti di portargli Candy, ma anche loro erano riluttanti ad avvicinarsi ai Totemix che si risvegliavano.
Nel frattempo la resurrezione continuava, mentre esseri viventi balzavano e volavano da ogni parte del palo. In alcuni punti così tante creature erano state abilmente intrecciate insieme che quando tornavano in vita era come rovesciare un boccale di esseri lasciando uscire il contenuto. Minuscoli roditori si srotolavano cadendo, animali simili a porcelli che emettevano strilli del tutto sproporzionati rispetto alla loro taglia minima, scimmioni dalle lunghe braccia, non più grandi della mano di Candy. E mentre la pioggia di piccole meraviglie cadeva, bestie molto più grandi sorsero dalla colonna come bagnanti che emergano da una vasca calda; all'inizio lenti, ma poi rinvigoriti dal primo soffio d'aria fresca che colpiva i loro musi.
Candy sedette al centro della vita che si risvegliava versando lacrime di gioia e meraviglia. Di rado si era sentita tanto felice.
Houlihan non era affatto felice. Non gli faceva per niente piacere assistere a quello spettacolo di vistosa gioia, di luce d'oro e gioiosi canti di uccelli, di cose che entravano nel mondo vivente con uggiolii rapiti. Lo disgustava e lo rivoltava. Soprattutto lo rivoltava quella Quackenbush, seduta al centro di tutte quelle nascite con le sue lacrime e un sorriso idiota. Due volte aveva già ordinato ai ricuciti di avventurarsi nel caos di luce e vita e di portarla da lui. Ma quelli, perfino i braghi, erano creature stupide e superstiziose. Erano intimiditi dal flusso di potere che circondava la ragazza. Houlihan sapeva che il solo modo per chiudere la faccenda era addentrarsi lui stesso nella tribù dei Totemix e afferrare Candy con le sue mani.
Non era del tutto disarmato. Da un uomo di Huffaker aveva comprato un Colpistella, una mazza lunga un metro e mezzo che era stata usata nell'antico, brutale sport del Colpistella. I Colpistella erano entità morali. Conoscevano la differenza fra bene e male e decidevano di preferire l'uno o l'altro. Il Colpistella che Houlihan portava con sé era stato proprietà di una famiglia di Colpistella temibili, che avevano giocato quel gran gioco con efficienza brutale e spesso letale. In altre parole, aveva con sé una mazza che non solo aveva colpito stelle cadenti nell'aria ma aveva anche ucciso molti innocenti. Gli piaceva il suo peso. Gli dava fiducia. Aveva tutta l'autorità dell'ascia di un boia. La sollevò e la lasciò ricadere pesante sulla spalla. Poi, sforzandosi di ignorare tutto il parapiglia dei Totemix, concentrò la sua attenzione sulla ragazza dell'Altromondo.
«Conta i secondi, Candy Quackenbush» disse. Qualcosa si era spezzato dentro di lui mentre guardava Candy tra i Totemix. Quali che fossero stati gli ordini di Carrion, non avrebbe riportato Candy viva a Gorgossium. Con il Colpistella stretto in mano, andò a prendere la ragazza, deciso a porre fine alla sua vita e alle sue corruzioni una volta per tutte.
17
Il Colpistella
Stare nel mezzo della liberazione dei Totemix era diverso da qualunque altra cosa Candy avesse mai visto o provato. La luce dorata che all'inizio aveva visto nella propria mano ora riempiva l'aria attorno a lei: un gran vortice nel quale molte delle creature risuscitate volteggiavano ancora, come trascinate dal puro piacere di farlo. Era così che era stato l'inizio del mondo, si chiese? Una sorta di luminosa danza a spirale?
Desiderò di essere parte di quella danza. Si alzò e prese a volteggiare al centro della luce, ridendo come se fosse un po' folle. Forse lo era. Forse tutta quell'avventura era una sorta di pazzo sogno che via via s'inventava. Se era così, non voleva svegliarsi. C'era troppo da vedere, troppo da...
Un momento! Mentre volteggiava, intravvide con disappunto un intruso in quella danza magica. L'Uomo Incrociato aveva lasciato il suo rifugio vicino alla porta e avanzava verso il centro della sala, brandendo un'arma. Ne saettavano archi di lampi bluneri, che colpivano le pareti e ogni tanto anche il soffitto. L'arma emanava un odore di zucchero bruciato misto a qualcosa di più disgustoso. Le onde di potere dorato che scorrevano dai Totemix si ritrassero dalla mazza, come disgustate dalla sua natura intima.
A giudicare dall'espressione di Otto Houlihan, era piacevolmente sorpreso dall'efficienza dell'arma. La brandiva con due mani, tagliando una fascia scura nei veli dorati della vita, facendosi strada verso Candy.
«È finita, ragazza» disse. «Questa è la fine! La fine!»
Candy smise di danzare e si concentrò su Houlihan più che poteva, cercando un modo per sfuggirgli.
«Filth!» urlò.
«Da questa parte!» rispose lo scimmio.
Filth si era arrampicato su una scaffalatura ed era accovacciato in cima.
«Vai via di qui!» gli gridò Candy. «E anche tutti i Totemix!»
«Perché?»
«Lui!» disse Candy, accennando verso l'Uomo Incrociato.
Filth colse subito il messaggio. Candy lo osservò scendere dagli scaffali, poi si concentrò di nuovo sul nemico.
Houlihan aveva levato l'arma oscura sopra la testa.
«Colpistella! Colpistella!» Candy sentì urlare Filth. «Attenta, ha un Colpistella!»
Si guardò indietro, chiedendosi quanto poteva arretrare. Non molto, scoprì. L'eruzione di potere scatenata dalla liberazione dei Totemix aveva rovesciato un'enorme massa di mobili: avrebbe dovuto dare la schiena a Houlihan per scavalcarla tutta, offrendosi all'aggressione.
Ma che altra possibilità aveva? O così, o restare lì al centro della luce, e lasciare che lui...
La luce. Ma sicuro: la luce.
Aprì le mani e si guardò i palmi. Il brillio dorato che vi aveva visto scintillava ancora luminosissimo. Granelli e frammenti di luce furono attratti verso le sue dita.
"Fa tutto parte della danza" pensò; la polvere, le sue mani; la luce che vorticava attorno a lei: "fa tutto parte della stessa meravigliosa danza. E io sono qui dentro."
Si protese in basso e chiuse la mano attorno all'aria splendente, poi le diede uno strattone. La luminescenza aveva peso, e forza. Era come tirare un pezzo di stoffa; sentiva la luce avvolgersi attorno alle sue dita, desiderosa di entrare in una più profonda intimità con lei. Se Houlihan avesse sospettato che cosa aveva in mente, si sarebbe affrettato ad accelerare la sua fine. Ma era troppo concentrato sulla propria arma, al momento: il suo sguardo era amorevolmente rivolto al Colpistella.
Candy trovò un angolino nel cuore per provare una piccola fitta di pena per lui, che non avrebbe mai provato la gioia che era stata concessa a lei nel tempo in cui aveva esplorato i misteri di Abarat. Aveva scelto il male e l'oscurità; povero uomo triste che era...
Mentre formulava questi pensieri, lavorava la luce con le mani, raccogliendola con abilità nel proprio corpo. Le veniva sempre più facile; il simile attirava il simile. Sentì un morbido bozzolo di luce formarsi attorno a lei, e il brillio dorato delle mani le si propagò lungo le braccia. Le colava anche dal volto, lo sapeva: lo sentiva illuminare l'aria davanti a sé. Che aspetto doveva avere, pensò? Forse un po' spaventoso?
Oh, poter camminare così per le strade di Chickentown! O ancora meglio, andare a casa in Followell Street e trovare suo padre sprofondato davanti alla tivù, circondato da lattine di birra e dalla puzza di sigarette. Avrebbe alzato lo sguardo e l'avrebbe vista lì in piedi, che emanava luce. Forse questo l'avrebbe svegliato dal suo stordimento!
Fu distratta per un attimo dal pensiero del padre, e in quei pochi istanti Houlihan si fece avanti per abbatterla. In effetti pareva quasi che fosse il Colpistella a guidarlo. Il colpo era a un soffio. Candy trasse un respiro disperato. La luce le invase il corpo, si riversò dentro di lei, la riempì con la sua forza.
Un attimo dopo il Colpistella calò per ferire. Candy era lì ad aspettarlo, con una rete di luce tesa tra le mani. L'arma colpì la rete, e Candy vide le due forze contrastanti cozzare come due onde terribili: la luce che infrangeva il buio che infrangeva la luce che infrangeva il buio...
Avvertì l'impatto all'istante; vide gli aghi della forza del Colpistella sfrecciarle addosso. Ma la luce era sua alleata. Si raccolse attorno a lei per parare il colpo e proteggerla, respingendo gli aghi al mittente senza che nemmeno la graffiassero.
Nel bel mezzo dello scontro, il suo punto di vista cambiò bruscamente. Vide la sala da un punto in alto sopra di sé. Tutto era agitato dai poteri che si erano scatenati lì dentro, sollevato e trasportato nello stesso flusso folle. Gli oggetti che al suo ingresso erano disposti in bell'ordine venivano scagliati in una confusione fantastica, fatti vorticare dalle correnti delle energie in guerra. Conchiglie gigantesche, strani strumenti musicali, specchi intagliati, fiori di dimensioni immense, due paia di stivali incrostati di pietre, parecchie teste essiccate, un ossuto scheletro vestito di stracci, una casa di bambole squisitamente complicata (con porte e finestre spalancate dalla tempesta per aggiungere il contenuto di cento stanze di mobili lillipuziani alla danza) e un sacco di altre cose che Candy non avrebbe saputo definire. Poi c'erano i Totemix, che vorticavano a loro volta, e molti ridevano per la pura gioia della corsa; si reggevano alle proprie code in modo da girare come ruote trasportate dall'aria, o cavalcavano la marea di poteri contrastanti come se fosse il più gran gioco della Creazione.
Forse lo era, si disse Candy. Forse quella lotta tra luce e oscurità era al centro del motivo per cui lei era lì ad Abarat: il Mondo della Notte e il Mondo del Giorno in un conflitto che col tempo avrebbe trascinato tutto in un solo uragano terribile, destinato a sconvolgere l'universo.
Per un po' aveva perso di vista Houlihan, ma ora lo vide di nuovo al centro del caos vorticoso. Teneva ancora stretto il Colpistella con tutt'e due le mani, ma la sua espressione non era più così sicura di sé. Sembrava spaventato. E a ragione. Ogni ondata oscura di potere emessa dal Colpistella veniva respinta dalla luce. Shape si scansava e si rivoltava nel tentativo di evitare gli aghi di oscurità che gli volavano addosso.
«Getta la tua arma!» gli urlò Candy sopra il frastuono del vortice. «Mi hai sentito, Houlihan? GETTALA!»
Lui la sentì. Ma non poté obbedire. Le sue mani tremavano forte, come se davvero stesse tentando di costringerle a lasciare l'arma: ma loro si rifiutavano di mollarla. Il Colpistella controllava i suoi muscoli. Il potere assassino che aveva portato nel cuore per aiutarlo a uccidere Candy si era rivoltato contro di lui. Ora era la sua vittima.
Il suo volto, che non era mai stato atteggiato ad altro che a un cipiglio o un ghigno sprezzante, all'improvviso era pieno di terrore, la bocca aperta a mimare un ululato senza parole. Incapace di fuggire, non poté far altro che gettarsi avanti e indietro, preso dal panico. Infine parve prendere la decisione di cercare di spezzare il Colpistella. Lo levò sopra la testa e lo calò in un rapido arco per colpire il suolo. Ma la mazza non si spezzò. Invece emanò un'ondata di oscurità più forte di tutte le precedenti, che a sua volta richiamò un pugno di luce d'oro a contrastarla. Se Houlihan fosse riuscito a gettare la mazza, forse sarebbe sfuggito alla disgrazia. Ma fu colto nel mezzo, e le due forze si scontrarono lì dov'era lui.
Fu più di quanto il suo corpo e la sua anima potessero sopportare. Gettò indietro la testa mentre schegge di potere sfuggite all'oscurità che si riversava dal Colpistella lo perforavano.
«No, per favore no!» urlò. «Aiuto!»
Il suo urlo divenne un gemito. Poi all'improvviso cessò.
La luce della vita, che aveva sempre bruciato con forza inquietante nello sguardo di Otto Houlihan, lo abbandonò.
Nello stesso istante in cui il suo cuore cessò di battere, il Colpistella parve perdere il proprio potere sul suo corpo. La presa sulla mazza letale si allentò, e Houlihan cadde a terra come una bambola gettata via.
Quanto al Colpistella, rimase a mezz'aria per qualche istante, poi subì lo stesso processo che aveva contribuito a scatenare. Un'onda di energie annodate lo colpì, e roteò attraverso la sala, cozzando contro parecchi oggetti orbitanti prima di colpire la parete e restarvi conficcato.
E così, in una grandine di oscurità e di luce, la battaglia letale della Wunderkammen - e con lei l'inseguimento di Houlihan - giunse al termine.
18
Partenza
Be', non è una cosa che si vede molto spesso» osservò Filth. Era ritto sulla soglia, con la pelliccia tutta in piedi grazie alle energie scatenate nella sala. Scintille gli correvano sulle punte dei peli più lunghi e sfrigolavano nell'aria.
Tutto attorno nella Wunderkammen gli oggetti si fermavano, cadendo dolcemente e atterrando nella confusione di cose che ingombrava il suolo. Alcuni Totemix già frugavano tra i detriti, soprattutto le creature più semplici, il cui primo pensiero dopo il risveglio dalla paralisi era stato riempirsi la pancia. Ben presto si resero conto che un rettile impagliato o un ventaglio dipinto erano pasti molto poco nutrienti e presero ad avventurarsi fuori dalla Wunderkammen in cerca di qualcosa che li saziasse di più. Nessuno di loro però se ne andò prima di essersi avvicinato a Candy e aver chinato il capo tributando rispetto alla liberatrice. Solo allora corsero via.
«Andiamo?» disse Filth.
Candy annuì.
Fuori dalla porta trovarono i ricuciti dell'Uomo Incrociato. Avevano battuto in una frettolosa ritirata non appena le cose dentro la Wunderkammen erano diventate troppo folli, ma ora erano distesi vicino alla soglia, a faccia in giù sulle piastrelle del palazzo. Ogni motivazione a quel che pareva era stata prosciugata dalla morte del capo.
Sulla porta, Candy si voltò a guardare il Colpistella, che era ancora sepolto per metà nella parete. Un sottile velo di fumo blunero si levava dall'arma, e ogni tanto una grossa perla d'oscurità si formava sull'impugnatura, attirando subito l'attenzione di barbigli vaganti di luce, che si chiudevano attorno a questi ultimi frammenti oscuri e li bruciavano in un istante.
«Credi che sia sicuro lasciarlo qui?» disse.
«Be', personalmente non nutro il desiderio di toccarlo» disse Filth. «Non dopo ciò che ha fatto. E poi qui non ci viene nessuno...»
«Qualcuno alla fine verrà a cercare lui» disse Candy, accennando al corpo disteso dell'Uomo Incrociato.
«Forse» ribatté Filth. «O forse no. Se è stato Carrion a mandarlo...»
«È stato lui.»
«Allora probabilmente sa già che il suo agente è morto. E non si darà la pena di seppellirlo, no? Lascerà qui la carcassa perché se la prendano i corvi ladroni e i cani rognosi. Dopotutto, se qualcuno crede nell'ordine naturale della putrefazione, dev'essere proprio un uomo chiamato Carrion, come dir Carcassa.»
«Allora credi che dovrei lasciare tutto così com'è?»
«Io lo farei. Hai affari più importanti ora che non seppellire dei malvagi. Hai un potere, ragazza. Se io fossi in te, mi chiederei il motivo. C'è solo un essere che io abbia conosciuto che avesse quel genere di capacità, ed è...»
Si fermò a metà frase e guardò Candy con un'espressione stranissima.
«Che cosa c'è che non va?» gli chiese lei.
«Dovrei starmene fuori da questa faccenda» disse Filth, quasi come se stesse dandosi un ordine. «È troppo potente per i miei simili. Potrebbero esserci rituali da compiere, poesie sacre da pronunciare. Dovrei stare molto attento.»
Candy vide la tensione sul suo muso e capì che sarebbe stato ingiusto insistere perché dicesse altro.
«Capisco» disse.
«Davvero?»
«Davvero. Stai dicendo che devo andare a finire questa faccenda magica da sola.»
«Be'... sì. Io sono soltanto un buffone. Il giullare di un re morto. Sono bravo a fare scherzi e prendere torte in faccia. Ma la magia no...»
La canzone che l'aveva guidata lì si levò di nuovo. Ma questa volta aveva le parole; o almeno lei udì le parole. Forse erano dentro la sua testa; nella sua memoria.
Comunque fosse, il significato le parve strano.
«Che viaggio è stato questo,
Questa mia vita!
Ogni Ora mi sveglio
Per scoprire un nuovo bocciolo
Sui rami sopra il mio capo!
Boccioli a forma di nuvole,
Boccioli a forma di fuoco,
Boccioli a forma d'amore.
Tutto ciò che è già trascorso
E tutto ciò che deve ancora venire
Su questa lunga strana strada.»
Molte Ore a ovest di Scoriae, sul lato sud della Guglia di Odom, la Venticinquesima Isola, tre donne della Fantomaya - Diamanda, Mespa e Joephi - sedevano con una bottiglia di brandy, un pezzo del più piccante formaggio furini mai fatto e una forma fresca di pane biscotto, e contemplavano la distesa grigioblu dell'Izabella.
Le cose erano state strane di recente, ne convenivano tutte e tre. E non avevano molto da discutere sulla ragione di tanta agitazione nel flusso consueto delle energie di Abarat.
«Candy» disse Joephi, senza il minimo dubbio. «È tutto a causa di Candy.»
«Be', non possiamo certo biasimarla senza biasimare noi stesse» disse Mespa. «Le avremmo dovuto parlare prima, mentre era ancora nell'Aldiqua, invece di lasciare che scoprisse le cose da sola.»
«Personalmente, credo sia meglio se le scopre da sola, e se impara ad affrontarle, che non se noi le diamo istruzioni e basta» disse Diamanda. Era di gran lunga la più vecchia delle tre, e quel giorno lo sentiva. Le responsabilità di quanto avevano scatenato insieme su Abarat le gravavano addosso. «Non c'è ragazza della sua età che accetterebbe ordini da parte nostra o di chiunque altro» aggiunse. «E lei non è certo una ragazza normale. Ha dei poteri che si agitano dentro di lei...»
«Proprio così!» disse Joephi. «Proprio così! Ha dei poteri che si agitano dentro di lei. E noi la lasciamo vagare incontrollata per le isole? È giocare col fuoco, Diamanda. È un gioco molto pericoloso.»
Diamanda si alzò e andò fino all'acqua, dove le piccole onde s'infrangevano contro la spiaggia sassosa. Si massaggiò la schiena dolorante, fissando il mare.
«Maledette queste mie vecchie ossa» disse. Poi, tornando all'argomento in discussione: «Fin dall'inizio di questa missione abbiamo rischiato molto. L'abbiamo sempre saputo. Avrebbero potuto esserci terribili conseguenze a qualunque stadio della nostra impresa. E ora... ora comincio a temere che le cose peggioreranno molto prima che migliorino.»
«È una profezia?»
«Diciamo un'ipotesi informata» disse Diamanda, voltandosi a guardare le sorelle. «In tempi come questi - tempi di cambiamenti, intendo dire - dobbiamo prepararci per le peggiori eventualità. Dobbiamo sperare e pregare che non si verifichino, ma prepararci lo stesso...»
«Che cosa stai dicendo?» disse Mespa, alzandosi dalla pietra sulla quale era seduta.
«Be'... se dovesse succedere qualcosa a una di noi...»
«Intendi dire a te» disse Joephi. «È questo che intendi, vero? Hai fatto dei brutti sogni, vero?»
«Qualcuno» ammise Diamanda. «Spero che non vogliano dire niente e che vivremo tutte per veder giungere a compimento ciò che progettammo tanti anni fa. Ma se dovesse succedere qualcosa a una di noi, voglio che promettiamo tutte di lasciare che la ragazza faccia le proprie scelte. Chissà che non faccia precisamente quello che vogliamo che faccia. Ha una sua volontà...»
«Più di una» disse Mespa, asciutta.
«Vero.» Il pensiero stampò un minuscolo sorriso sul volto di Diamanda. «Potrebbe essere la sua salvezza, naturalmente» disse. «Potrebbe essere la salvezza di tutti noi.»
Guardò il cielo sopra la Guglia di Odom. Era una vista curiosa. Luce e buio là erano invertiti, a riprova del potere unico della Venticinquesima Ora. Le stelle erano capocchie di spillo d'oscurità contro un cielo pallido. Diamanda studiò lo spettacolo, cercando qualche altro segno di ciò che riservava il futuro. Ma a quel che pareva non trovò nulla.
«So che ci piacerebbe pensare che il destino tiene le redini di tutto questo» disse piano. «Che da qualche parte il fato ha preparato un futuro felice. Ma sorelle, io credo che Candy confonderà le nostre attese, quali che esse siano, e con quanta cura noi le coltiviamo. Dobbiamo permetterle di essere se stessa, nel bene e nel male.»
«Che la Dea ci perdoni per ciò che abbiamo fatto» mormorò Mespa.
«Lo rimpiangi, vero?» disse Joephi a Mespa. «Vorresti che non l'avessimo mai fatto.»
«Abbiamo interferito con l'ordine naturale delle cose» disse Mespa. «Non credo che sia stato saggio.»
«Ma è cosa fatta» disse Diamanda con forza. «E non c'è modo di tornare indietro. Non c'è modo di tentare di piegarla al nostro volere se non siamo d'accordo con le scelte che fa. Non è il nostro giocattolo.»
«Ha imparato in fretta» disse Joephi. «E c'è molta rabbia in lei. Probabilmente viene da suo padre. Forse se lo perdonasse...»
«Ecco, appunto» disse Diamanda. «Vuoi ancora manipolarla.» Fece un sorriso cupo. «Come se potessimo. Lei, tra tutti..»
«Sto solo dicendo che la combinazione di rabbia e potere produce una forza pericolosa. E tu dici che non dovremmo cercare di controllare quella forza. Lasciamo che impari, dici. Ma che cosa succede mentre impara, Diamanda? Pensa ai danni che potrebbe fare.»
«Pensa al bene» disse la vecchia signora. «Pensa al primo motivo per cui abbiamo fatto questo. A quello che volevamo conservare.»
«Be', è un rischio terribile, quello che corriamo» disse Joephi. «Spero solo che non finiremo per rimpiangerlo.»
Ci fu un breve silenzio. Poi Mespa disse: «Non possiamo almeno darle qualche indizio?»
«Be'... non vedo come» rispose Diamanda. «Da dove dovremmo cominciare?»
«Da quella notte. La pioggia. Sua madre.»
«Be', vedi, c'è un'altra cosa, adesso che lo dici» disse Joephi. «La madre.»
«Che cosa c'entra?» disse Diamanda.
«Le abbiamo dato un pezzo del mistero. Lei l'ha accettato. Gli ha dato la nascita. L'ha allattato.»
«E allora?»
«E allora non ti è mai venuto in mente che forse anche lei è stata toccata dalla magia?»
Diamanda cacciò via l'irritante osservazione. «Era solo un contenitore. Non c'è potere in lei.»
«Ti sto dicendo, Diamanda, che se stiamo cercando che il futuro ci sorprenda, dovremmo guardare oltre la ragazza. Guardare quelli che ha toccato.»
«E che toccherà» disse Mespa, cupa. «Che sta toccando ora. Credo che Joephi abbia ragione. Dobbiamo essere vigili. Guardare ovunque in cerca di segni.»
Come per dar ragione a Mespa, una delle stelle che tremavano allo zenit della Spira scelse quell'istante per morire, ed esplose con la grazia silenziosa di un soffione che si disintegra davanti a uno sbuffo di vento.
Tutte le donne guardarono in alto mentre i fiocchi scuri di materia stellare cadevano e cadevano e si spegnevano. Rimasero in silenzio per un po' dopo che lo spettacolo fu finito. Ma infine Mespa disse: «E che cosa voleva dire, lo sapete?»
Diamanda vuotò il suo bicchiere di brandy. «A occhio» disse «un bel niente.»
19
Vita e morte a Chickentown
In un mondo molto distante dal luogo in cui Joephi, Mespa e Diamanda si scambiavano i loro pensieri e timori - a Chickentown, Minnesota - la vita continuava come sempre. Il che non vuol dire che la sparizione di Candy Quackenbush non avesse suscitato una bella dose di pettegolezzi in città. L'aveva fatto. Soprattutto perché c'erano alcuni dettagli bizzarri legati alla storia.
Secondo una voce, per esempio, la Quackenbush era stata vista il giorno della sparizione dalla vecchia Mrs. Lavinia White (alias la Vedova White), che viveva in Lincoln Street, ai margini della città. In un'intervista rilasciata a un giornalista del Corriere di Chickentown,la Vedova White sosteneva di aver visto Candy procedere verso la prateria aperta, guardando il cielo.
«C'era qualcosa da guardare?» era stato chiesto alla Vedova White.
«Solo qualche nuvola» aveva risposto la Vedova. «Ma più tardi...»
«Che cosa è successo più tardi?» aveva chiesto il cronista.
«Era strano...» aveva detto Lavinia. «Una mezz'ora dopo il suo passaggio, la finestra della mia camera da letto cominciò a tremare.»
«E che cosa fece lei?»
«Aprii la finestra.»
«Smise di tremare?»
La Vedova White aveva rivolto all'uomo uno sguardo di profondo disprezzo, come se non riuscisse a immaginare perché potesse chiedere una cosa del genere quando c'erano così tante cose di cui parlare.
«Ho sentito l'odore del mare» aveva detto al cronista. «Lo so che sembra una follia, ma è così. Lo giuro. Ho sentito l'odore dell'oceano. Salato e freddo.»
«È impossibile» aveva osservato il cronista.
«Sta cercando di insinuare che sono pazza?»
«No...»
«Perché non lo sono. Posso essere vecchia, ma pazza no. Le dico che ho sentito l'odore dell'acqua di mare.»
Non volendo offendere l'anziana signora, il giornalista le aveva chiesto con garbo quando era stata di preciso vicino all'oceano l'ultima volta.
«Durante la mia luna di miele» aveva risposto la Vedova White. «Settantadue anni fa.»
«È possibile che forse la sua memoria sia un po' incerta?» aveva suggerito con cautela il cronista.
Lavinia aveva trafitto il pover'uomo con uno sguardo il cui acume non era stato smussato dal passare degli armi. «Sta forse insinuando che non mi ricordo che cosa accadde durante la mia luna di miele?» disse.
Aver offeso il giornalista non le portò bene. Quando sul Corriere apparve l'articolo, diceva tra l'altro che "la dichiarazione di Lavinia che sostiene di aver sentito l'odore del mare è un triste commento della fragilità dell'età avanzata".
Il giornalista (assieme al direttore del giornale) dovette ben presto rimpiangere di aver espresso un'opinione in proposito. Quel giorno il Corriere ricevette duecentoundici telefonate, tutte di gente in città che sosteneva di aver a sua volta sentito l'odore del mare lo stesso giorno della Vedova White. Forse era qualche stravagante condizione del vento, suggerirono alcuni, ma non era l'immaginazione della Vedova White.
Come risultato di queste proteste, il direttore spedì un fotografo e un altro giornalista a setacciare la zona in cui la ragazza Quackenbush era sparita. C'era una specie di torre in rovina laggiù, secondo la polizia, ma era tutto.
Questa si rivelò ben presto essere solo parte della verità. Il fotografo del Corriere in effetti scattò delle foto alla torre, che sembrava un faro nella prateria, ma scoprì e fotografò anche i resti marci di un lungo molo di legno. Era strano, commentò il Corriere. Chi avrebbe costruito un molo là fuori nel bel mezzo del nulla quando non c'era acqua per miglia?
E quando la zona fu esaminata con più attenzione, si scoprì che c'erano altri strani fenomeni di cui riferire. Nell'erba alta fino alla vita attorno al molo, il fotografo s'imbatté in una bizzarra selezione di oggetti. Così tanti, in effetti, che il direttore del Corriere richiese a mezzo stampa che la polizia perquisisse l'area. Sostenendo di non avere uomini a disposizione, la polizia spedì in loco i boy scout di Chickentown, fornì loro guanti sterili e sacchi dell'immondizia di tre diverse misure, diede loro ordine di raccogliere tutte le "prove" nei dintorni e li spedì a recuperare il tutto.
Trovarono ogni genere di stranezze. I resti essiccati di centinaia di pesci che di sicuro non avevano mai nuotato in un lago del Minnesota; un certo numero di uccelli morti, anche quelli di specie sconosciute; innumerevoli conchiglie; un occhio di vetro (verde); una coda di pelle (azzurra); uno strumento di legno intagliato a forma di serpente che, a soffiarci dentro, emetteva una sola nota di inquietante bellezza; sette scarpe, tutte spaiate; e parecchi altri sacchi di roba che era stata così consumata dal tempo passato in acqua da essere irriconoscibile.
C'era anche un solo sopravvissuto dello specchio d'acqua che, quale che fosse, era esistito lì. Sollevando una grossa pietra sotto il molo, due ragazzi trovarono una creatura non dissimile da un'enorme aragosta turchese. La creatura si divincolò con tanta violenza che perse la vecchia armatura addobbata da crostacei. La bestia dal tenero guscio che c'era sotto fuggì nell'erba alta, e sparì.
Tutto questo fu accuratamente riferito sulle pagine del Corriere,sotto il titolo "Strani avvistamenti vicino ai confini della città".
Se quella fosse stata la fine delle bizzarrie, la gente di Chickentown forse avrebbe deciso di dimenticare le cronache e continuare con la sua vita di ogni giorno.
Ma non era la fine. Era solo l'inizio.
Nel cuore della città, al Comfort Tree Hotel, Norma Lipnik (che aveva fatto fare a Candy un giro dell'albergo appena prima della scomparsa della ragazza) aveva le sue stravaganze con cui misurarsi: eventi che era decisa a tenere fuori dalle pagine del Corriere per ragioni meramente commerciali (non voleva mettere in fuga i clienti) ma che ben presto sarebbero comunque diventati di dominio pubblico.
Il Comfort Tree Hotel aveva un fantasma. Perlopiù non era un gran problema. In effetti, quando Candy era stata in visita, Norma l'aveva accompagnata su nella vecchia parte dell'hotel - nella stanza diciannove - dove si diceva che abitasse quel fantasma, e le aveva raccontato con orgoglio della sua triste vita. Si chiamava Henry Murkitt, e secondo la leggenda dell'hotel si era suicidato nella stanza diciannove un malinconico Natale di molti anni prima. Aveva le sue ragioni. Norma ne conosceva due. L'amatissima moglie, Diamanda, l'aveva abbandonato, secondo la storia corrente, ed era partita per destinazione ignota. Quella era la prima ragione. E la seconda? Il consiglio comunale aveva deciso nel dicembre del 1947 di cambiare il nome della città (che fino a quel momento si chiamava Murkitt, in onore degli antenati di Henry, che avevano fondato la comunità ottant'anni prima) in Chickentown.
Henry aveva preso male questi colpi. Così male che aveva deciso che non valeva la pena di vivere. Si era rinchiuso nella stanza con una pistola e una bottiglia di whiskey e aveva detto addio alla vita. Ma secondo molti membri del personale dell'albergo, il povero Henry non era riuscito a lasciare del tutto il mondo che gli aveva dato tanto dolore. Infestava ancora l'aria stagnante della stanza diciannove. Era una presenza del tutto benevola. Non aveva mai tentato di spaventare nessuno dello staff del Comfort Tree, e non aveva fatto nulla di dannoso alla struttura dell'hotel.
Finora, cioè.
Ora Norma era sulla soglia della stanza diciannove e guardava la parete di fronte. Qualcuno aveva scarabocchiato tre parole:
LIVELLO
PIÙ ALTO
Norma non amava l'idea di dover accettare che era opera di un uomo morto, ma aveva poche alternative. I suoi dipendenti erano tutti gente onesta e lavoratrice; nessuno di loro avrebbe fatto uno scherzo del genere.
Quindi restava solo una persona, si disse Norma. Il graffito era opera di Henry Murkitt. Ma che cosa voleva dire? Questo era il dilemma che Norma si rigirava nella mente fissando le tre parole scarabocchiate sull'intonaco. Il fantasma della stanza diciannove era diventato un po' matto nel corso degli anni, o stava cercando di comunicare qualcosa?
Andò alla parete e fece scorrere incerta le dita sulle lettere. L'intonaco graffiato era freddo in modo innaturale. Ritrasse rapida la mano, e i peletti sulla nuca le si rizzarono. Era lì nella stanza con lei, in quel momento? Scoccò uno sguardo furtivo e spaventato alle sue spalle. Poi trasse un gran respiro e disse: «Sei... qui, Henry?»
Subito non ci fu risposta alcuna. Nessun rumore, nemmeno il mimmo graffio. Niente che segnalasse una qualunque presenza. Norma fece per voltarsi verso la porta. Ma in quel momento colse un movimento con la coda dell'occhio. Rimase immobile: non voleva guardare. Ma la curiosità fu più forte della paura, e si voltò lentamente per guardare di nuovo verso quel guizzo.
Era solo la tenda!
Esalò quanto fiato le restava, scuotendo il capo e dicendosi quanto era sciocco tutto questo. Era solo una tenda mangiata dalle tarme mossa dal vento, ecco...
Un momento. Vento? Quale vento? La finestra era chiusa ermeticamente, eppure la tenda grigia si gonfiava come se una corrente l'avesse colpita da dietro.
«Oh mio Signore...» disse Norma.
In quel momento la lampada appesa al centro della stanza, con il paralume ingiallito dal tempo e dalla nicotina, cominciò a oscillare.
E alla sua luce frastornante vide la stoffa sporca della tenda contorcersi all'improvviso, come se fosse stata afferrata da mani invisibili, e nelle sue pieghe vide un volto, non c'era dubbio; i suoi tratti erano stilizzati dal tessuto: solo due buchi per gli occhi, un vago bozzo per naso e una bocca spalancata.
Era più di quanto Norma volesse vedere. Emise un breve strillo, che zittì con le proprie dita, e si ritrasse verso la soglia. Temeva che la cosa venisse verso di lei, ma non si mosse. Rimase lì nel tessuto mentre il paralume lampeggiava in alto. All'improvviso la lampadina rifulse e si fulminò. Norma ne approfittò. Si voltò e spalancò la porta per chiuderla con un tonfo alle proprie spalle.
Le ci vollero alcuni minuti e sei sigarette tormentate per calmarsi. Ma quando ci riuscì, capì ben presto che il fantasma nella stanza diciannove probabilmente non aveva voluto far del male a nessuno con la sua apparizione. Dopotutto l'aveva chiamato lei no? Tutto ciò che il fantasma di Henry Murkitt aveva fatto era stato rispondere alla chiamata, probabilmente nel solo modo che conosceva. E ora la domanda: che cosa doveva fare? Decise che era troppo agitata per tenere nascosto al suo staff il fatto che era successo qualcosa. La conoscevano troppo bene. Così riunì tutti in cucina e spiegò meglio che poté che cos'aveva visto sulla parete e nelle tende della stanza diciannove.
«Sta cercando di mandare un messaggio» disse Ethel Bloch, responsabile delle pulizie.
«D'accordo» disse Norma, stizzita. «Diciamo che è così. E allora?»
«Dovresti dirlo a tutti. Quello che hai visto. E le parole.»
«Ha! La gente penserà che tu sia pazza» la mise in guardia Ed Farrow, che dirigeva le cucine. «Nessuno verrà più qui. Io te lo dico, la gente è strana su queste cose. Ti ricordi quel suicidio al McEnroe's Motel? IL vecchio Mick McEnroe pensava di fare più affari di quanti non riuscisse a gestirne. Ha fatto fare quei cappelli assurdi e tutto. E che cosa è successo? Ha chiuso in due mesi. Nessuno vuole sentir parlare di morte quando è in giro a divertirsi.»
Lo staff parve dar ragione a Ed Farrow, e la riunione finì con tutti d'accordo nel tenere la faccenda sotto silenzio, almeno finché Norma non avesse fatto qualche indagine sulla vera ragione della presenza di Henry Murkitt e del suo messaggio.
Purtroppo, qualcuno non riuscì a tenere la bocca chiusa. L'eco di quanto Norma aveva visto e sentito ben presto si diffuse in città, e verso sera c'era un gruppetto di cittadini fuori dall'hotel, impegnati a cercare di individuare la finestra della stanza diciannove. Norma non perse tempo ad accusare nessuno. Ciò che era fatto era fatto. Decise a metà serata di andare a parlare con la folla riunita. Si scoprì che tre persone possedevano già fotografie sfuocate ma perfettamente decifrabili degli scarabocchi nella stanza diciannove, anche se si rifiutarono di citare la persona che le aveva fatte entrare a scattarle. Alla fine Norma decise semplicemente di confessare ciò che aveva visto. Se aveva sperato che ciò ponesse fine alla faccenda, si sbagliava di parecchio. La folla invece divenne più ampia mentre le notizie sulle "parole sul muro" si diffondevano in città. Alla fine della giornata c'erano trecento persone fuori dall'hotel. Norma si sentiva in stato d'assedio. Appena dopo mezzanotte, un paio dei membri più turbolenti della folla decisero che volevano entrare a vedere personalmente quello che Henry Murkitt aveva scritto sulla parete. Cercarono di forzare un ingresso Norma ne aveva avuto abbastanza. Chiamò la polizia. Cinque minuti dopo, fuori c'erano tre auto, e la folla veniva dispersa con garbo.
Ai margini della prateria, la Vedova White era seduta vicino alla finestra e ascoltava le sirene che vagavano per le strade dal centro della città. Seppe dalla nuora Vivien che cosa stava succedendo giù al Comfort Tree Hotel, e la cosa le fece maledire con particolare veemenza la sua età avanzata. Avrebbe voluto essere laggiù, mescolarsi fra la folla, scoprire che cosa stava succedendo.
Qualcosa di speciale era nell'aria, di questo non dubitava. Sentiva il vento premere contro la finestra e il vetro scricchiolare mentre i soffi lo colpivano. Si spinse con la sedia a rotelle fino alla finestra, e fece un vano tentativo di aprirla. IL legno si era deformato durante le gelate invernali e ora le sue dita artritiche avevano difficoltà ad aprire quella dannata cosa.
Ma insisté, sfidando il dolore nelle giunture delle dita, decisa ad annusare quel vento. Finalmente la chiusura cedette ai suoi sforzi, e la Vedova White aprì la finestra con una spinta. Il dolce aroma dell'erba della prateria le venne incontro dall'oscurità.
Pensò all'articolo che aveva letto sul Corriere,a proposito di ciò che avevano trovato là fuori nella prateria: la torre, l'immondizia e i pesci morti accumulati tra l'erba come se fosse il livello dell'alta marea.
Un segnale d'acqua alta!
«Oh, santi del cielo, proteggeteci» disse piano, fissando dentro la notte.
Vivien non le aveva detto che lo scrittore fantasma nella stanza diciannove aveva scritto LIVELLO PIU ALTO?
Era un avvertimento. Ma sicuro. Livello più alto! Livello più alto! Com'era possibile che tutti (lei compresa) fossero così idioti? Il fantasma del Comfort Tree Hotel sapeva di che cosa stava parlando! C'era l'acqua, da qualche parte là fuori. Forse un fiume sotterraneo rinchiuso nella roccia, che si sforzava di liberarsi. O forse qualcosa di più strano? Al momento non era importante. Contava solo diffondere l'avvertimento, a cominciare da Vivien.
Spostò la sedia a rotelle dalla finestra. All'improvviso faticava a respirare, e le braccia le parvero di piombo.
"Calmati, Lavinia" si disse piano. "Solo... calmati; hai un attacco di panico. Respira, Lavinia. Respira."
Ma il consiglio non servì. Un terribile dolore bruciante le era sorto in pieno petto, come il peggiore mal di cuore immaginabile. Emise un piccolo singhiozzo di dolore e gettò uno sguardo disperato alla finestra aperta, chiedendosi se poteva in qualche modo chiedere aiuto da lì. Certo era più vicino del telefono. Ma di colpo le sue braccia furono troppo pesanti da sollevare. E il dolore al petto era insopportabile. Voleva solo che smettesse, anche se questo voleva dire che la sua lunga vita era giunta alla fine. Meglio questo che un altro istante di quel tremendo dolore.
«Basta» disse a denti stretti. «Per favore... basta.»
Il suo cuore sentì le sue parole, e le fece l'enorme gentilezza di obbedire. Il dolore la lasciò improvviso com'era venuto. Lavinia trasse un ultimo respiro grato. E se ne andò.
20
Malingo solo
Nelle settimane dopo che Candy aveva aiutato Malingo a sfuggire al controllo di Kaspar Wolfswinkel e ad abbandonare l'isola-prigione di Ninnyhammer, il rattopardo era quasi sempre rimasto in sua compagnia. Ed era molto grato di questo. Anche nei sogni erano vicini. Era una pietra miliare delle convinzioni dei rattopardi che il sonno non separasse gli amici e gli amati, ma invece avvicinasse le loro anime dormienti. Di qui il saluto familiare dei rattopardi quando si allontanavano per dormire: non "Buonanotte" o "Sogni d'oro", ma "Ci vediamo nel sonno".
Ora però Candy era andata via, e Malingo era rimasto solo. Non letteralmente, è chiaro. Aveva gente che gli premeva addosso da tutti i lati, cantando, danzando, ululando e strillando: tutti che si divertivano come non mai. Ma la loro allegria serviva solo a far sentire Malingo più solo. Per il primo paio d'ore dopo che Candy fu sparita nel cielo sempre più buio nelle grinfie dello zethek, rimase ai margini della folla in movimento, schiacciato contro la staccionata che impediva agli incauti di cadere giù da un precipizio e finire in mare. Dietro di lui, la gente premeva e spingeva, avida di arrivare alla prossima attrazione.
«Sgarbati, sgarbati, sgarbati» borbottò Malingo tra sé. «Se Candy fosse qui, non verremmo spintonati in giro così!»
Infine fu così irritato dal modo in cui la gente spingeva che decise di trovarsi un posto più comodo. Con enorme difficoltà, si voltò contro la marea vivente e cercò di avanzare tra la folla. All'altro capo della massa vide delle bancarelle che vendevano cibo. Immaginò di comprare laggiù una bella fetta di flan spakeano, generosamente cosparsa di polvere di babbazucchero, e l'appetito lo rese impaziente. Alzò la voce:
«Posso passare, prego? Voglio soltanto... Prego! Volete SPOSTARVI?»
Il suo grido attrasse qualche sguardo seccato, ma la folla continuò ad avanzare, impedendogli di allontanarsi anche di un solo passo dalla staccionata. Sapeva dalle settimane di viaggi con Candy che cosa avrebbe fatto lei in una simile situazione. Avrebbe continuato a spingere, senza accettare che la risposta fosse no. Così fece anche lui. Unì le mani e trasse un gran respiro, come se stesse per tuffarsi, poi premette contro la folla.
Scelse un brutto momento. Tre grossi Hobarukiani, tutti avvolti in enormi pellicce viola di nupus a mo' di panciotti, e muniti di cappelli a strisce, erano impegnati a pavoneggiarsi, e non presero bene il fatto che qualcuno li intralciasse.
«Ehi, cane di un rattopardo! Non pensarci nemmeno a passare.»
«Diglielo!»
«Io odio i rattopardi!»
«Li odio!»
«Non ci hai sentito, idiota? Ci dai fastidio.»
Ogni pensiero di flan spakeano era ormai svanito dalla mente di Malingo, che riusciva a pensare solo al modo in cui lo trattavano quei prepotenti. La cosa gli fece ribollire il sangue.
«D'accordo» disse, parandosi apposta davanti agli Hobarukiani a pugni alzati. «Chi di voi vuole essere il primo?»
Il terzetto rise, e il più piccolo dei tre (che era comunque quindici centimetri più alto di Malingo) gli diede una spinta potente in mezzo al petto. Lui barcollò all'indietro e si trovò a portata del più grosso dei malfattori, che lo spintonò a sua volta.
«E se facciamo girare il piccoletto?» disse quello grosso. «Io, poi Spittel, poi Slegma, poi ancora io.»
«Oh, sì!» disse Slegma, quello basso. «Vuoi dire come una partita! Buona idea, Snut!»
La folla si era spostata in fretta per dare agli Hobarukiani tutto lo spazio per tormentare il loro nuovo giocattolo. Nessuno alzò la voce, men che meno una mano, per ostacolare l'atto di prepotenza. Snut spinse Malingo tra le braccia di Spittel, che lo rivoltò, gli diede un pugno e lo scagliò verso Slegma, che lo schiaffeggiò. Nessuno dei colpi fu particolarmente forte, ma ricordarono a Malingo il tempo passato sotto la crudele tirannia di Kaspar Wolfswinkel, quando ogni giorno voleva dire botte e insulti e umiliazioni. Candy l'aveva salvato da tutto ciò, naturalmente. Ed era Candy che gli aveva insegnato che non doveva mai più vivere nella paura.
"Ho fiducia in te" gli aveva ripetuto. E lo intendeva davvero.
«Cos'è che fai, rattopardo?» disse Snut.
«Pensa, ecco cos'è che fa» disse Spittel. «Pensa che gli fa tanto male il naso.»
In effetti Malingo stava più che pensando. Stava formulando. In fondo alla testa rigirò alcune parole segrete che aveva imparato da un libro della biblioteca di Wolfswinkel: Formule essenziali per i combattimenti corpo a corpo.
Come cominciava la formula? Qualcosa sulle piume. No, non le piume. Ferropiuma! Ecco cos'era...
Spittel gli calciò via le gambe, e lui cadde. Con il muso nella polvere, pronunciò la formula in un sussurro.
«Coprimi da
Capo a piedi
Di Ferropiuma
Che...»
Oh Lordy Lou, le altre parole gli sfuggivano. Quali erano? Nel frattempo, gli Hobarukiani si erano stufati di giocare a Passa il Rattopardo. Slegma cominciò a prendere a calci Malingo. Una piccola folla si era finalmente formata attorno ai quattro personaggi. La gente la considerava un'altra attrazione. E gli Hobarukiani continuarono a calciare e calciare. Malingo cercò di ignorare il dolore e di concentrarsi sulla formula. Com'è che finiva?
«Coprimi da
Capo a piedi
Di Ferropiuma...»
Il Ferropiuma che cosa? Che cosa?
Poi le parole gli affiorarono alle labbra, così, dal nulla.
«... Che il Nazrat rubò!»
«Che cos'hai detto?» chiese l'Hobarukiano chiamato Spittel. Afferrò Malingo e lo trasse in piedi. «Che cos'era quella roba?»
«Niente» rispose Malingo.
«Niente?» disse l'Hobarukiano. «Te lo do io, niente! Picchialo, Snut!»
«Be', tienimelo fermo.»
«È fermo. Picchialo.»
Snut sferrò a Malingo un colpo nello stomaco. Ma la formula aveva fatto effetto. Fu Ferropiuma che colpì, e bastò a spezzargli tutte le ossa della mano. Urlò e cadde in ginocchio, cullandosi le falangi rotte. In quel momento di confusione Malingo recitò un secondo incantesimo:
«Lo senti il tamburo
Di odio e di festa?
Or cala la mazza
Sulla tua testa.»
Nessuno lo sentì pronunciare una parola. La folla era troppo impegnata a urlare. Un bambinetto portato in spalla dal padre cominciò a cantilenare:
«Sangue! Sangue! Sangue! Sangue!»
Slegma, intanto, aveva afferrato Malingo e urlò a Spittel: «Vogliono sangue! E diamogli sangue.»
Spittel ghignò. «Il piacere è tutto mio» disse, e sferro un colpo a Malingo. In un punto tra la partenza e l'arrivo, tuttavia, il colpo cambiò direzione si ritorse contro il bruto, che si ritrovò percosso dal proprio pugno.
Levò un urlo mentre i colpi andavano a segno uno dopo l'altro. La folla ne fu assai divertita.
«Sei stato tu!» disse Slegma, spingendo via Malingo. «Tu, sudicio uomo magico.» Diede due pugni a Malingo, ma entrambi atterrarono sulla sua mascella.
«È meglio degli spettacoli!» rise qualcuno tra la folla.
I tre Hobarukiani, perfino il ferito Snut, furono così furiosi per l'umiliazione che cominciarono a sferrar colpi a gragnola, volenti o nolenti, e tutti i colpi tornarono indietro a colpirli. La folla applaudiva ogni colpo e rideva a ogni nuovo livido. Era troppo attratta dalla violenza per accorgersi che Malingo strisciava via. E non notò nemmeno la stoffa azzurra che calò dal cielo per srotolarsi vicino al rattopardo. «Presto!» disse una voce femminile. Malingo si voltò e per un attimo gli parve di vedere un volto nelle pieghe della stoffa azzurra.
«Sbrigati!» disse la voce femminile. «Aggrappati alla stoffa!»
Non dovette farselo ripetere. Mentre afferrava il tessuto, si voltò a guardare la folla e scoprì che Slegma finalmente si era liberato della forza del suo incantesimo e veniva verso di lui, sputando sangue insieme a insulti della peggior specie.
«Sono pronto!» disse Malingo alla donna avvolta nella stoffa azzurra.
«Reggiti forte» gli disse. «Sarà una bella cavalcata!» In quel momento Slegma si fece avanti e afferrò Malingo per la camicia. «Preso!» urlò. Intanto la stoffa azzurra si avvolgeva più stretta attorno alla mano e al polso di Malingo, serrando la presa.
E poi lo sollevò nell'aria.
Slegma si tenne appeso per i primi tre metri di volo. Poi la camicia di Malingo cominciò a strapparsi e con una maledizione finale Slegma lasciò andare la sua preda e ricadde al suolo.
Malingo non guardò in giù. Si tenne stretto alla stoffa che sventolava mentre si alzava come un'enorme vela azzurra. Sentiva il frastuono della folla sotto di lui: esclamazioni di sorpresa e incredulità. Ma dopo un po' l'aquilone improvvisato a cui si reggeva cambiò direzione, e le folle e la luce e il rumore svanirono, e i soli rumori che riuscì a sentire furono il sibilo del vento e la voce della donna che mormorava un canto ristoratore.
21
Conversazioni notturne
Christopher Carrion era tornato dalle Piramidi di Xuxux alla fortezza di Iniquisit a Gorgossium con molte cose in testa. Era chiaro dal suo incontro con l'amniota nelle tombe che l'alveare che aveva creato era instabile. Gli amnioti non erano solo intelligenti, ma anche ambiziosi, e la loro capacità di deporre uova li rendeva formidabili. Ingenuamente aveva supposto che sarebbero stati pedine passive nel gioco mortale che stava per scatenare e che sarebbero stati facili da manovrare. Ma ora capiva l'errore di questa supposizione. Avevano i loro programmi. Non poteva fidarsi più di loro che di Leeman Vol, che aveva passato il viaggio di ritorno a Gorgossium pescando minuscoli pidocchi rossi dal proprio cranio e sussurrando loro. Carrion non chiese di che cosa parlava, né tantomeno che cosa gli rispondevano.
Vol lo disgustava. Se non avesse avuto bisogno dell'abilità dell'uomo come traduttore, senza dubbio l'avrebbe gettato fuori bordo senza pensarci due volte. Ma non poteva permettersi di perdere Vol tra i suoi fedeli, soprattutto ora che aveva visto quanto numerosi e potenti erano diventati gli amnioti. Sarebbe stata tutta un'altra faccenda quando la guerra fosse stata vinta e conclusa. Non solo progettava di sterminare fino all'ultimo occupante dei nidi degli amnioti, ma si sarebbe assicurato che anche Vol perisse.
Una volta tornato nella Dodicesima Torre, fece del suo meglio per distogliere il pensiero da Vol e dagli amnioti. Lì, dove le pareti erano coperte di scarabocchi e incisioni che aveva fatto da bambino, si sentiva al sicuro. Mandò a chiamare i suoi servi fedeli, Baby Congiuntiva e Lazaru, perché gli portassero la sua mappa delle isole. Fu portata e dispiegata nella stanza. La mappa era rotonda, e progettata per essere contenuta alla perfezione nella circonferenza della torre: copriva ogni pollice del pavimento della Sala Alta, consentendo a Carrion di avanzare su acqua e terra come un colosso. Camminò da un'isola all'altra, accovacciandosi ogni tanto per esaminare la forma di una baia particolare o il declivio di una collina speciale, e intanto ordiva piani.
Le sue meditazioni furono interrotte da un gran stridore di uccelli, seguito da un'esplosione di tamburi marziali che echeggiarono tra le torri. Carrion si alzò e andò alla finestra. Molto più in basso (trentasette piani, in effetti) un'enorme processione, illuminata da innumerevoli luci, si dipanava sul paesaggio roccioso e attraverso gli archi gettati tra la Dodicesima e la Tredicesima Torre. A metà di questa processione, su un trono posato sul polso reciso di un'immensa mano mummificata che in qualche modo era stata portata in vita, c'era la nonna di Carrion, Thant Yeyla Carrion, comunemente nota come Mater Motley. Nel viaggiare non perdeva il suo prezioso tempo, ma era impegnata a cucire alla luce esitante delle torce. Il Principe non dovette chiedersi a che cosa lavorava; era sempre la stessa ossessiva occupazione. Cuciva insieme le pelli dei ricuciti: sacchi semiumani nei quali sarebbe stato versato il fango vivo delle Miniere di Todo. In questo modo veniva formato un enorme esercito che a tempo debito sarebbe stato usato per distruggere i poteri chiari del Giorno, e tutte le forze che nel tempo il Giorno fosse riuscito a raccogliere. Era un'impresa che durava da molti anni, ma sua nonna aveva reso noto che l'enorme fatica stava per concludersi, e molto presto l'esercito di ricuciti sarebbe stato completato. Il Sire della Mezzanotte sarebbe stato il loro generalissimo; ma la loro creatrice era Mater Motley.
Carrion scese le fredde scale di pietra con insolita fretta. Non era il caso di lasciar aspettare sua nonna alla porta della torre. Anche quando era di ottimo umore, era una donna malvagia, più rapida di lui a offendersi, e più rapida a punire chi la offendeva. La sua presenza aveva provocato all'istante uno stato di caos e trambusto nella Dodicesima Torre, e lo irritò constatare come molti di quelli che presumibilmente erano suoi leali servitori erano fuggiti nelle caverne sotto la torre piuttosto che trovarsi lì dove lo sguardo omicida di Mater Motley avrebbe potuto posarsi su di loro. Perfino le varie sottospecie che infestavano gli spazi inferiori della torre, discendenti di gargoyle e cani selvatici, di serpigorilla e lampi, avevano cercato il riparo delle segrete piuttosto che rischiare di essere visti.
Solo un giovane di nome Letheo, un quindicenne che Carrion aveva trovato a vagare nelle miniere di fango un anno prima e aveva preso sotto la sua protezione, rimase alla porta d'ingresso, imperturbato. Il ragazzo si era sputato sul palmo e tentava di appiattire un ricciolo ribelle.
«Non hai paura, Letheo? La vecchia strega è pericolosa. Non lo sai?»
Letheo sorrise al suo salvatore. «Io non ho paura di lei» disse. «Ho voi a proteggermi, capo. E comunque voglio vedere che cos'è tutta questa confusione.»
«Quindi non hai mai posato lo sguardo sulla mia adorabile nonna?»
Letheo scosse il capo, e la ciocca di capelli neri gli cadde di nuovo sulla fronte.
«Be', allora dovresti andare a farla entrare» disse Carrion. «È ora che tu incontri la donna più malvagia di Abarat.»
«È davvero la più malvagia?»
«Oh, sì» rispose Carrion senza l'ombra di un sorriso. «È la peggiore. La peggiore delle peggiori. Non si può avere una reputazione come la sua senza aver fatto tanto male da meritarsela. Parricida. Matricida. Ha fatto tutto.»
«Che cosa sono tutte quelle cose? Parri...»
«... cida. L'assassino del proprio padre. Matricida. L'assassino della propria madre.»
«Ha fatto questo?» chiese Letheo, la voce ammorbidita dal timore.
«Credimi... è il minimo.»
«Che cosa può esserci di peggio?»
«L'infanticidio?»
«Infanti... L'assassinio di bambini?»
«Vedi come impari in fretta!»
«Sconcertante.»
«Ma ti ricordi...»
«Che cosa?»
«A chi devi essere fedele, ragazzo.»
Letheo s'inchinò con rispetto. «Voi siete il mio Principe» disse. «Sempre. Fino alla fine del mondo.»
Carrion ghignò il suo ghigno scheletrico. «Siamo intesi, allora» disse. «Fino alla fine del mondo. Stringimi la mano.»
Letheo fu lusingato di stringere la mano del suo Sire. La prese con entusiasmo. «Fino alla fine del mondo.»
«Ora vai alla porta. Fa' entrare quella donna malvagia, prima che ci avveleni la soglia.»
Letheo andò alla porta e col fare silenzioso di chi è nato per commettere un delitto o l'altro la aprì. Non un attimo in anticipo. Lì in piedi sul gradino della torre, la mano guantata levata e pronta a bussare, c'era una delle innumerevoli damigelle di Mater Motley, una donna di mezza età con la capigliatura avvolta nei colori sacri, scarlatto e grigio, e col volto invaso da tatuaggi di ombre. Tutto ciò la indicava come una delle più intime servitrici di Mater Motley, una componente della Sorellanza del Filo. Nei circoli di streghe, era una donna potente.
«La Regina Madre Thant Yeyla Carrion fa visita al nipote. Volete dirgli...»
«Sono qui, Lady Putrith» disse Carrion, uscendo dalle ombre.
La minuscola, grigia Lady Putrith esibì un minuscolo, grigio sorriso, che mise in mostra i denti affilati. «Principe» disse, chinando il capo. «Vostra nonna vi aspetta.» Poi si fece da parte, gettando indietro il voluminoso mantello con uno svolazzo teatrale, così che Carrion potesse passare.
«Letheo» disse Carrion. «Vieni con me.»
Ragazzo e uomo uscirono nella fredda oscurità. Letheo sgambettava per tenere il passo di Carrion che avanzava lungo la fila dei tamburini e dei bruciatori d'incenso e dei battiterra di Mater Motley finché non raggiunse la piattaforma sulla quale era eretto il vasto trono della vecchia. Vasi pieni di fuoco nerovioletto, nel quale ogni tanto affondava le dita affilate come aghi per renderle più rapide, si ergevano alla sua destra e alla sua sinistra.
«È una piacevole sorpresa» disse Carrion, e il suo tono amabile non aveva nemmeno una vaga vena di piacere sincero.
Mater Motley parve altrettanto indifferente al fatto di trovarsi al cospetto del nipote. Tolse la mano sinistra dalle fiamme e prese il lavoro di cucito che le giaceva in grembo.
«Non vieni mai a trovarmi» disse, senza guardare Carrion. «Così sono costretta a venirti a trovare io.» La sua voce era vuota d'affetto quanto la sua espressione, aspra e priva di gioia. «Sei ingrato, Carrion.»
«Sono che cosa?»
Dopo un lungo istante lo sguardo della megera si levò dal ritmo di ago e filo e si fissò su di lui. «Mi hai sentito» disse. «La Sorellanza sgobba Notte dopo Notte dopo Notte per fare un esercito per te...»
«Per noi, nonna» disse Carrion, rifiutandosi di farsi intimidire dallo sguardo di pietra di Mater Motley. «Questa è la nostra grande opera. Il nostro sogno.»
Mater Motley emise un sospiro di epica gravità. «Sono troppo vecchia per i sogni» disse. «Tu sei l'unico che comanderà su tutte le isole quando la grande opera sarà compiuta.»
Carrion scosse il capo. Aveva già sentito tutto ciò. Lei era sempre la vittima; sempre la martire. «E naturalmente tu non hai la forza di fare del male a nessuno, vero?» disse. «Tu sei solo una vecchia signora stanca e malservita che morirà presto in un'aura di santità.» Rise. «Sei ridicola.»
«E tu sei crudele» disse lei. «E un giorno soffrirai per questo.»
«Sì, sì» disse Carrion. «Un giorno, un giorno. Adesso lascia stare un po' l'ago» aggiunse. «Andiamo insieme in un posto tranquillo.»
Le labbra della vecchia si arricciarono. «Credi di essere tanto furbo, Carrion. Solo perché tu sei sopravvissuto e tutti i tuoi fratelli e sorelle sono morti. Ma chi è stato a salvarti?»
«Sei stata tu, nonna. E non passa un'ora senza che io levi una preghiera di gratitudine.»
«Bugiardo» disse la megera, gelida. Infilò l'ago col filo nel puntaspilli che le pendeva dalla cintura e mise da parte il ricucito a cui stava lavorando. Poi mormorò una parolina in Antico Abaratico - yethasiha - e una scalinata di gas emanò dal davanti della piattaforma. Si alzò e la discese.
Indossava come sempre un abito di lusso e magnificenza inquietanti, decorato in tutta la sua lunghezza da quelle che avrebbero potuto essere bambole, o resti di bambole: in realtà erano i resti raggrinziti delle sue vittime, ridotti a tristi brandelli e cuciti sull'abito a guisa di fiocchi di seta.
«Hai un aspetto magnifico, nonna.»
«E tu sei patito. Che cosa c'è che non va? Sei innamorato?»
«Innamorato? Io? E di chi sarei innamorato?»
«Non lo so, dimmelo tu. Vieni, camminiamo, così potrai rivelarmelo.»
22
Una sentenza di morte
Insieme, Carrion e sua nonna passeggiarono lungo l'imboccatura della miniera, e camminando parlarono del futuro.
«Tanto perché tu lo sappia, non ho creduto a una parola di ciò che hai detto prima» fece osservare Carrion alla nonna. «Tu vuoi controllare le isole quanto me. Forse di più. Dopotutto, hai avuto più tempo per agognarle.»
Mater Motley si fermò e fissò il nipote senza una traccia di affetto.
«E anche se le ho agognate?» disse. «Non credi che io meriti un impero dopo tutto ciò che ho sofferto?» IL suo volto recava i segni inconfondibili di quella sofferenza, anche alla luce benevola di una luna di Gorgossium. La sua pelle era percorsa da rughe. In esse vi era rabbia, e invidia; e soprattutto odio, infinito odio.
«Meriti tutto quello che potrai ottenere» le disse Carrion. «Non lo metto in dubbio. La domanda è: come facciamo a prenderci questo impero?»
«A lungo termine, dovremo prendere la Venticinquesima Ora. Occuparla, sradicare i suoi segreti.»
«E se non vuole rinunciare ai suoi segreti?»
«Distruggerla.»
«Si può fare?»
«Be', non sarà facile, ma sì, tutto si può fare se abbiamo la volontà di farlo. Prima però dobbiamo eliminare chi ci crea problemi. Il che mi porta alla questione attuale. Andiamo un po' più in là?»
Una parete di fumo acre si levò dal pozzo della miniera davanti a loro, perché il fango veniva mescolato a vari agenti tossici prima di essere versato nei corpi dei ricuciti. Il vapore e il puzzo erano devastanti, ma Mater Motley rimase insensibile a entrambi. Guidò Carrion più in là, attraverso il fumo opprimente, come se camminasse in un campo bagnato dal sole.
«Chi è il ragazzo, fra parentesi?» chiese a Carrion. «Quello che ci segue.»
«Si chiama Letheo. Da grande vuole fare l'assassino. Così è venuto da me a farsi istruire un po'.»
«Ragazzo ragionevole. Non c'è mai un tempo in cui un buon assassino non possa trovare lavoro. Hai sentito di Houlihan, immagino.»
«Che cosa?»
«L'hai mandato in missione per trovare la ragazza dell'Altromondo, vero?»
«Sì, l'ho mandato a cercare Candy Quackenbush. L'ultima voce che mi è arrivata...»
«È morto, Carrion.»
«Che cosa?»
«Non conosco ancora i dettagli. Ma l'ho saputo da una delle mie spie di Scoriae. Una fonte molto affidabile. L'Uomo Incrociato è morto. Ed è stata la ragazza.»
Carrion voltò la schiena alla nonna, mentre un'immagine della ragazza gli appariva nella mente, in piedi, con un piede piazzato sul petto di Houlihan disteso a terra.
«Deve morire, Carrion.»
«Sì?»
«Sì! In qualche modo l'abbiamo sottovalutata. Non è una scolaretta sempliciotta dell'Altromondo. È una specie di incantatrice pazza.»
«Impossibile.»
«Sembri molto sicuro.»
«Io... ho fatto indagini su di lei...» disse Carrion, imbarazzato.
«Che cosa ti ha indotto a farlo?»
Carrion si voltò verso la nonna. «Lei... mi affascinava» disse in tono leggero.
«E queste tue ricerche che esito hanno dato?»
«Non molto. È qui per errore. Credo che almeno questo sia chiaro. Avevo mandato Mendelson Shape...»
«Il fu Mendelson Shape» disse Mater Motley.
«Sai già tutto, vero?»
«Quando c'è di mezzo la morte, ho un certo fiuto. Continua. Stavi dicendo che avevi mandato Mendelson Shape...»
«A prendere la Chiave delle Piramidi, che era stata rubata.»
«Da John Dispitto e dai suoi fratelli.» «Sì. E dopo averla rubata, sono fuggiti. Nell'Altromondo. Nel momento in cui Shape li ha raggiunti, la ragazza è comparsa nelle vicinanze. Per puro caso. Dispitto le ha passato la Chiave - l'ha depositata nella sua mente - pensando, suppongo, di recuperarla più tardi.»
«Ma non è andata così?»
«No. La marea li ha presi tutti con sé e li ha riportati qui.»
«Da come lo racconti, sembra tutto perfettamente innocente.»
«Ma tu non credi che lo sia?»
«No! Certo che no! Ascoltami. Questa ragazza non è una spettatrice innocente. Lo capiresti, se riuscissi a vederla in una chiara prospettiva. Metti da parte tutti i pensieri teneri su di lei. Perché nutri pensieri teneri su di lei, vero?»
Carrion distolse lo sguardo e fissò il pozzo velenifero.
«Rispondimi» disse la vecchia, la sua voce come chiodi di ferro sulla pietra.
«Come potrei provare sentimenti teneri per lei? Non ho mai nemmeno incontrato quella dannata creatura.»
«Allora non soffrirai nell'ucciderla.»
«No. Certo che no.»
«Non mandare uno dei tuoi lacchè a fare il lavoro, o finirà come l'Uomo Incrociato. Ricorda, Houlihan era bravo. Ma in qualche modo lei l'ha vinto.»
«Un colpo di fortuna» disse Carrion.
«Forse.»
«Non stai tentando di suggerire che questa ragazza è una vera minaccia per noi, vero?»
Mater Motley sospirò; la sua pazienza era scarsa. «Sto dicendo che la sua presenza qui non è un caso.»
«Ma il Mare...»
«Sì, ragioniamo sul Mare, d'accordo? Perché il Mar d'Izabella è andato nell'Altromondo? Perché qualcuno l'ha chiamato, Carrion. Chi è stato? Non Mendelson Shape.»
«No. Certo che no. Shape non era capace di quel genere di magia. Era un funzionario. Niente di più.»
«E Dispitto e i suoi fratelli? Sono esperti di magia?»
«Ne dubito.»
«Anch'io. Eppure il Mare è stato richiamato alla Spiaggia Vecchia, Carrion. Chi l'ha chiamato?»
«Non credo che ci sia nessun gran mistero, là» disse Carrion. «C'è un faro, un resto dei giorni dell'Impero.»
«Sì, ma qualcuno ha dovuto accendere quel faro per chiamare il mare, Carrion. E di nuovo ti chiedo: chi?»
Il Sire della Mezzanotte questa volta non rispose. Almeno, non subito. Le sue mani andarono al collare, e picchiettò le dita contro di esso. Gli incubi risalirono dall'ombra e strofinarono la loro lunghezza intestinale contro il vetro, come per cercare rassicurazione nel loro creatore; e lui in loro.
«Allora siamo daccapo alla ragazza» disse Carrion.
«Chi altri?» disse la vecchia. Anche se Letheo si teneva a rispettosa distanza dalla conversazione e non poteva aver sentito il dialogo con il frastuono dei minatori, Mater Motley si avvicinò a Carrion e parlò quasi in un sussurro. «In questo momento, Carrion, siamo più vulnerabili di quanto mi piaccia. Se la Gran Corte delle Ore dovesse avere anche solo un vago sentore di ciò che stiamo tramando, saremmo privati di tutti i titoli, tutti i possedimenti e - se si sentissero inclini a farlo - anche della vita.»
Un brivido di paura - o forse un'eccitazione perversa - dovette scorrere dentro Carrion in quel momento, perché gli incubi scagliarono fili di lampo, che gli illuminarono il viso attraverso la carne fino alle ossa ondulate.
«Nessuno oserebbe» disse.
«Credi che i Principi siano intoccabili?» Si tolse un ago di riserva dalla manica del vestito e lo levò davanti al volto di Carrion. «Non ricordi quanto faceva male questo?»
Gli incubi divennero più agitati che mai. Ricordavano. Anche Carrion. Avrebbe potuto dimenticare? Come gli aveva con cura ricucito le labbra per aver pronunciato la parola amore. E come la rabbia gli aveva infiammato l'anima mentre veniva messo a tacere, tanto che a volte sembrava che avrebbe preso fuoco.
«D'accordo» disse Carrion. «Dunque io non sono intoccabile. Grazie per avermelo ricordato.»
«Ora, sbarazzati della ragazza. Più presto muore, più felice sarò. E so che tu vivi solo per rendermi felice.»
Carrion sorrise. «Quanto hai ragione.»
«Ma assicurati che la cosa venga fatta in assoluta segretezza.»
«Sicuro. Potrei portare Letheo. Può aiutarmi.»
«Avvertilo, però» disse Mater Motley, scoccando uno sguardo obliquo al ragazzo, «che se mi dà una ragione qualunque di sospettare della sua lealtà, non potrà contare sulla tua protezione per salvarsi la pelle.»
«Glielo dirò» disse Carrion. «Hai detto che la ragazza è a Scoriae?»
«È l'ultima notizia che ho. Da qualche parte nelle vicinanze del vecchio Palazzo del Crepuscolo. Ma non ci resterà a lungo, posso garantirlo. Quindi spicciati, Carrion.»
«Sì, sì.»
«Bene.»
Mater Motley non aveva altro da dirgli e non aveva intenzione di perdere prezioso fiato in smancerie. Voltò le spalle al nipote, seguì il sentiero fino al limitare della miniera e nell'andare infilò di nuovo l'amatissimo ago nella manica.
23
Da sognatore a sognatore
Quando Candy emerse dal Gabinetto delle Meraviglie - col cuore che le batteva ancora ferocemente in conseguenza di tutto ciò che aveva visto, di tutto ciò che aveva fatto - andò a sedersi sotto gli alberi. Forse il mormorio dolce del venticello tra i rami drappeggiati di nebbia l'avrebbe calmata, e sarebbe riuscita a comprendere ciò che era appena successo.
Filth nel frattempo si arrampicò su un albero e sedette tra i rami, osservando la visitatrice con nuovo nervosismo.
Candy alzò lo sguardo verso di lui. «Va tutto bene» disse, cercando di suonare rassicurante. «Non sto per impazzire.»
Nel dirlo ricordò quando era in piedi sul molo a Capo Orlando, con Malingo, e l'uomo con gli occhi rincagnati, l'aveva indicata.
"Ti rinchiuderanno." Non aveva detto così? "Ti rinchiuderanno."
In quelle parole c'era un altro pezzo del puzzle. Era tutto legato. Ciò che era successo lì, ciò che era accaduto sulla Parroto Parroto e l'avvertimento che aveva udito sul molo. Tutte queste cose erano parte di un solo enorme mistero.
«Ti faccio paura?» chiese a Filth.
Lui le rivolse un ansioso sorriso da scimmio, arricciando le labbra fino a rendere visibile il rosa maculato delle gengive.
«Sicuro» disse lei. «Be', se ti può consolare, spavento un po' anche me stessa.»
«Huh.» Il dito di Filth andò al naso e scavò in profondità; lo scavo fu accompagnato da grugniti di piacere. «Quello che hai fatto là dentro...» disse. «È stato straordinario.»
«Non ci ho pensato» disse Candy. «Ho fatto solo quello che sembrava... naturale.»
«Il che lo rende ancora più straordinario.»
«Immagino di sì.»
Filth reclinò il capo. «Che cos'era quel borbottio?»
«Era il mio stomaco. Ho fame.»
«Perché non l'hai detto?» si lamentò Filth. «Il palazzo ha una cucina enorme. Potrei cucinare qualcosa.» Parve sollevato di poter fare qualcosa che le facesse piacere; che la calmasse, perfino.
«Solo se mi prometti che prima ti lavi le mani» ribatté Candy.
Mentre Filth andava in cucina, Candy rimase sotto l'albero, a rimuginare su tutto ciò che era successo, anche se non le si presentava nulla di simile alla soluzione del puzzle, soltanto i pezzi: ovunque guardasse, i pezzi. A ritroso fino all'evento che l'aveva portata lì, ora che ci pensava. Lei nel faro, ancora nell'Altromondo, con Shape che saliva zoppicando le scale per ucciderla, e lei che in qualche modo sapeva, sapeva senza sapere perché sapeva, come accendere la lampada che avrebbe portato il Mar d'Izabella a reclamarla. Così tanti segni. Così tanti indizi. Ma che cosa voleva dire tutto ciò?
Dopo forse venti minuti, un urlo dello scimmio: il cibo era pronto. Candy seguì l'odore di cibo e trovò la cavernosa cucina. Filth era appollaiato su un alto sgabello, intento a preparare alcuni piatti. Aveva già fritto una bella dose di quelle che sembravano ciambelle a spirale e aveva aperto una serie di barattoli di frutta sciroppata. Ora stava togliendo le spine a un grosso pesce sott'olio: succhiava via rumorosamente la carne prima di gettare le lische dietro le spalle.
Candy non si era resa conto della fame che aveva finché non si trovò lì, davanti a tutto quel cibo. Senza nemmeno darsi la pena di sedere, cominciò a mangiare, e ben presto si ritrovò ad aver assaggiato quasi tutto ciò che Filth aveva preparato per lei e cominciò a provare un piacevole tepore di sazietà. Una decisa sonnolenza la invase, anche.
«Dovresti andare a stenderti» disse lo scimmio. «Chiudi un po' gli occhietti.»
«Mmm, forse sì.»
«C'è un lettino laggiù nell'angolo» aggiunse Filth. «È dove i cuochi facevano i loro sonnellini. Mettiti giù. Ti sveglio io se succede qualcosa di interessante.»
«Grazie» disse Candy. Le sue membra erano piacevolmente grevi, come le palpebre. Andò al basso, stretto lettino e tirò indietro l'antica trapunta. Sotto non c'erano lenzuola, solo un paio di coperte lise. Si distese, e le membra grate sprofondarono nella morbidezza del vecchio materasso. Tese la mano e prese la trapunta. Stava per tirarsela sul corpo quando il sonno ebbe la meglio su di lei.
Sognò di essere seduta sulle scale in Followell Street; ma era una sensazione diversa dal puro sogno, sentiva in qualche modo di essere là nello spirito. Sentiva i fratelli litigare di sopra, le voci acute, gli insulti brutali come sempre.
"Culo grasso!"
"Cervello di scimmia!"
"Puzzone!"
"Culone!"
E poi una terza voce, che farfugliava per eccesso di birra.
"Volete piantarla, o devo venire su e ammazzarvi di botte? Che cosa preferite?"
Candy guardò giù per le scale e vide suo padre in piedi nell'ombra di sotto, il volto umido di sudore. Ricordò com'era minaccioso e imprevedibile quando era di quell'umore. Come tutta la casa sembrava trattenere il respiro in attesa della prossima esplosione.
"Be'?" urlò Bill Quackenbush su per le scale. "Che cosa preferite?"
"Stiamo buoni, papà" disse Don, mesto. "Sicuro che state buoni, maledizione, perché altrimenti vi farò desiderare di non essere nati, mi avete sentito? DI NON ESSERE NATI!"
Dai ragazzi silenzio assoluto. Nemmeno un passo. Sapevano per dolorosa esperienza quanto poteva essere crudele il loro padre quando aveva uno dei sui attacchi d'ira alcolica.
Ringhiando qualcosa fra sé, Bill Quackenbush si voltò e tornò allo splendore macchiato di birra della sua poltrona.
Anche se sapeva che suo padre non poteva vederla o sentirla in quel momento, Candy d'istinto fece ciò che aveva imparato a fare da tempo tutte le volte che suo padre era di quell'umore. Rimase seduta molto tranquilla e non disse niente per un po'. Solo quando la sua rabbia parve sedata andò a cercare sua madre.
Dov'era? La cucina era vuota, ma la porta sul retro era aperta, e Candy uscì, dando un'occhiata all'orologio sopra il frigo. Erano le 4.05 del pomeriggio. Ad Abarat, sarebbe stata a Gnomon, a quell'ora. Ma lì il tempo scorreva in un altro modo, nel mondo che così a lungo aveva chiamato casa. Presto il sole avrebbe cominciato a scivolare giù verso l'orizzonte, e sarebbe venuta sera. Non doveva far altro che stare lì tranquilla, e le ore sarebbero scivolate via. Quell'idea le parve un po' strana. Si era abituata all'idea che il Tempo fosse un luogo, un punto sulla mappa che si andava a visitare, proprio come si andava in altri posti.
"Un giorno" pensò, "tornerò a Chickentown, in questa casa, dalla mia mamma e dal papà e dai miei fratelli." E pensando a questo si raccomandò di cominciare a raccogliere dei ricordi di Abarat da portare con sé. Non cose che avrebbe potuto trovare anche nell'Altromondo. Dovevano essere del tutto abaratiane. Una copia dell'Almanacco di Klepp. Un orologio a bussola come quello che aveva visto al mercato di Tazmagor, che ti mostrava quando era dove, o dove era quando, o tutte e due le cose. Magari qualche foto della flora e fauna più selvaggia delle Ore. Prove, in breve. Cose che poteva mostrare alla gente, che fossero la prova inconfutabile dell'esistenza di un altro posto molto più incantevole, dove i pettegolezzi e la birra e la produzione di polli non erano le sole cose importanti.
Mentre meditava di raccogliere le prove era arrivata fino al limitare del cortile, e lì, seduta su una sedia da giardino arrugginita, dando la schiena alla casa, c'era sua madre.
"Oh, mamma..." disse Candy piano.
Si era quasi aspettata che Melissa Quackenbush avvertisse la sua presenza e si voltasse a sorriderle. Ma la donna non si mosse.
"Mamma" disse di nuovo Candy.
Ormai era così vicina da riuscire a sentire il morbido respiro ritmico di sua madre. Era addormentata? Spostandosi con molta cautela, in modo da non svegliarla, accerchiò la sedia. La vista del volto di sua madre le fece venir da piangere. Melissa era così stanca, così svuotata. Aveva gli occhi chiusi, la bocca rivolta all'ingiù, la fronte lentigginosa segnata da una ruga profonda.
"Candy" mormorò nel sonno. "Sei tu?"
I suoi occhi si mossero dietro le palpebre venate di azzurro come per cercare di comprendere una visione sognata. L'espressione addolorata di sua madre fece desiderare a Candy di distogliere lo sguardo. Ma quando lo fece, scoprì Melissa in piedi a pochi metri da lei, al centro del prato incolto. Confusa, Candy tornò a guardare la donna che dormiva nella sedia arrugginita, e poi di nuovo la gemella di sua madre.
"Non capisco" disse. "Perché siete due?"
"Una sogna, una è sveglia" disse Melissa, come se fosse il concetto più semplice del mondo. "Io sono là che sogno su quella sedia. E immagino che anche tu sia da qualche altra parte, addormentata."
"Allora ci incontriamo nei nostri sogni?" chiese Candy.
Melissa annuì. "È così bello vederti, tesoro" disse. "Dove sei stata? Hai fatto l'autostop? Sei andata a Minneapolis?"
"No."
"Dove, allora? Dove sei?"
"Sono molto, molto lontana da Chickentown, mamma."
"Oh, Dio. Qualcuno ti ha rapito?"
"No" disse Candy con un sorriso. "Sto solo viaggiando, tutto qui."
"Be', perché non mi hai telefonato per dirmi che stavi bene?" ribatté Melissa, mentre il sollievo si inacidiva in rabbia. "Come hai potuto essere così egoista? Ho immaginato ogni genere di cose. E naturalmente tuo papà era sicuro che fossi finita nei guai con un ragazzo, o con la droga."
"Niente ragazzo. Niente droga."
"Allora che cosa?"
"Oh, mamma... se ti raccontassi che cosa mi è successo... lo giuro, diresti che sono pazza."
"Non m'importa. Voglio sapere."
Nel sonno, Melissa si fece agitata. Candy si protese e posò con dolcezza una mano consolatrice sulla spalla della madre.
"Mamma, mi dispiace" disse. "Non avevo modo di mettermi in contatto con te."
"Non essere sciocca. Nessuno è così lontano."
"Io lo ero. Io lo sono."
"Allora dimmi" disse Melissa.
"Dirti cosa?"
Questa volta la Melissa dormiente e quella sveglia parlarono insieme. "Tutto!" dissero. "Dimmi tutto!"
"Oh. Tutto. Be', da dove comincio?" Candy rifletté un attimo sulla domanda, e poi finalmente disse: "Chi sono, mamma?"
"Sei mia figlia, ovvio. Sei Candy Quackenbush."
"Dove sono nata?"
"Lo sai dove sei nata. Qui a Chickentown."
"Sei sicura?"
"Ma certo che sono sicura."
Candy studiò Melissa, in cerca di qualche traccia di dubbio. E la vide, anche; una piccola scintilla negli occhi di sua madre.
"C'è stato qualcosa di strano nel modo in cui sono venuta al mondo?" chiese.
Questa volta Melissa distolse lo sguardo. "Non so perché mi fai queste sciocche domande."
"Te lo dico io perché" ribatté Candy, con voce molto calma. "Perché anche se stiamo sognando di essere nello stesso mondo, mamma, non lo siamo. Io sono in un posto che si chiama Abarat. Non si trova su nessuna mappa che tu abbia mai guardato."
"È ridicolo."
"No. Non lo è. È la verità. E io credo che tu sappia che è la verità."
Tacque, per dare a sua madre l'opportunità di contraddire questa affermazione, se voleva, ma Melissa rimase in silenzio, così Candy riprese.
"In questo istante sto dormendo su un'isola che si chiama Scoriae, alle Sette della Sera. Ogni Ora ha la sua isola qui, sai. Si può tipo viaggiare nel tempo, spostandosi di isola in isola. Io mi trovo in quello che viene chiamato il Palazzo del Crepuscolo. È stato costruito per una principessa, molto tempo fa..."
Melissa non replicò, ma scosse il capo molto, molto piano, come se tutto questo fosse troppo da accettare. Ma Candy continuò a raccontare la sua storia, senza distogliere lo sguardo da sua madre. "Quando sono arrivata qui, ho pensato: è tutto nuovo; non assomiglia a niente che abbia mai visto. Ma mi sbagliavo. Via via che passavano le settimane, ho avuto la sensazione sempre più netta che questa non sia la prima volta che sono venuta qui." L'espressione dubbiosa di sua madre s'intensificò. "Sono stata ad Abarat prima d'ora, mamma" disse Candy. "Non so come questo sia possibile, ma è così."
Tacque di nuovo, per radunare i pensieri, e poi riprese.
"E mi pare che se io so qualcosa di Abarat, allora probabilmente lo sai anche tu, perché sei stata con me per tutta la vita, fin dall'inizio."
Di nuovo Candy concesse a sua madre un momento per riflettere. Poi disse: "Allora, mamma? Sai qualcosa?"
Quasi in un sussurro, Melissa rispose: "Forse."
"Dimmelo. Ti prego. Qualunque cosa sia. Dimmelo."
Melissa trasse un profondo respiro. Poi, molto piano, disse: "La notte che sei nata, pioveva così forte che era come se stesse per accadere un secondo Diluvio. Non ho mai visto una pioggia simile. Ma dovevo andare all'ospedale, pioggia o non pioggia, perché all'improvviso tu eri pronta a nascere, e non avevi intenzione di arrivare in ritardo." Fece un piccolo sorriso. "Eri ostinata, anche allora" disse. "Così tuo padre mi sistemò nel camion e partimmo. Ma quando fummo sull'autostrada, indovina un po'? Restammo senza benzina. Così tuo papà scese sotto il diluvio per andare a cercare un benzinaio, lasciandomi... lasciandoci. .. nel camion. E la pioggia continuava a scendere, tamburellando sul tetto del camion, e tu continuavi ad agitarti dentro di me, e proprio mentre credevo che saresti nata lì sul sedile davanti, ho visto una luce..."
"Papà?"
"No, non era il tuo papà. C'erano tre donne, lì fuori nella pioggia. Ho capito subito che non erano di Chickentown. Dal loro aspetto, innanzitutto. Una di loro era vecchia, con lunghi capelli bianchi."
"Diamanda..." disse piano Candy.
Melissa rimase stupefatta. "La conosci?" disse.
"Un po'" disse Candy. "Diamanda, Mespa e Joephi. Sono tutte Sorelle della Fantomaya. Vuol dire che sono donne che conoscono la magia. Non intendo il genere di magia da Las Vegas..."
"So cosa intendi" disse Melissa. "Almeno posso immaginarlo. Oh, Signore, perché le ho lasciate venire vicino a me? Avrei dovuto fuggire."
"Come?"
"Avrei dovuto provarci. Ma invece sono rimasta lì. E la portiera si è aperta, e..." Tacque, e il suo sguardo fu invaso da una rabbia improvvisa. "Avremmo avuto una vita perfettamente normale" disse. "Una vita perfettamente felice, semplice, ma poi sono arrivate loro con la loro magia."
"Raccontami il resto, mamma. La portiera si è aperta, e poi?"
"La vecchia signora, Diamanda, aveva una scatola, che reggeva come se il contenuto fosse la cosa più importante del mondo. E quando la aprì..." Melissa chiuse gli occhi per un momento, e Candy udì un singhiozzo. Si guardò alle spalle e vide che la sua mamma piangeva nel sonno, commossa fino alle lacrime da quei ricordi. Provò una fitta di senso di colpa per ciò che aveva fatto, rivangando il passato così. Ma aveva bisogno di quelle risposte. Più ancora, le meritava. Per troppo tempo le era stato serbato quel segreto.
"Continua" insisté con dolcezza.
"Aprì la scatola, e dentro c'era luce. Non solo una luce. Vita. Qualcosa di vivo dentro la luce. E qualunque cosa fosse - questa cosa luminosa - entrò in me, Candy. Attraverso la mia pelle, i miei occhi, il mio respiro."
"Hai avuto paura?"
"Non in quel momento. Almeno, non per me. Vedi, nel momento in cui hanno cominciato a muoversi attraverso il mio corpo, ho capito che non ero io ciò che la luce e la vita volevano." Finalmente aprì gli occhi, e madre e figlia si guardarono, da sognatrice a sognatrice. "Eri tu" disse. "La luce voleva te."
24
Marito e moglie
«Melissa! Alzati! Ho fame!»
Il padre di Candy era sulla porta, la camicia aperta fuori dai pantaloni, la pancia gonfia di birra e lustra di sudore. Puntava il dito verso Melissa, che era ancora addormentata sulla sedia. Candy ricordava fin troppo bene che cosa si provava a trovarsi vicino a lui quando era di un umore simile. La sua minaccia, il suo puzzo; il malessere che trasudava. Quante volte, nel corso degli anni, l'aveva sorpresa a guardarlo, aveva colto il disprezzo nei suoi occhi e l'aveva picchiata per questo?
Ma in quel momento l'oggetto della sua rabbia era la moglie.
«Svegliati, vacca pigra!» urlò. «Non mi hai sentito? Ho fame.»
"Oh, taci" disse Candy a denti stretti. "Non svegliarla ancora. Non abbiamo finito di parlare."
"Troppo tardi" le mormorò Melissa, la voce sempre più debole via via che i richiami del marito la ridestavano. "Lui odia vedermi dormire. Immagino che sia perché non dorme bene." La sua immagine era fluttuante. "Ha certi incubi."
Bill avanzava nel giardino, urlando contro sua moglie. «Melissa, dannazione, VUOI SVEGLIARTI?»
Alzò il pugno avvicinandosi. Candy non esitò a capire che cosa intendeva fare...
«Ti avverto, donna!» ringhiò.
D'istinto Candy gli si parò davanti e alzò il braccio per bloccare il colpo di suo padre. Non era sicura dell'effetto che avrebbe sortito, se mai lo poteva sortire. Dopotutto, era solo una presenza di sogno. Ma aveva una sua consistenza, anche nelle attuali condizioni. Quando il braccio di suo padre entrò in contatto col suo, lui levò un urlo spaventato. Lo lasciò cadere e strizzò gli occhi iniettati di sangue.
«Che cosa diavolo...?» Aspettò un momento, poi avanzò di nuovo verso la moglie che dormiva. Era ancora pronto a fare del male.
"No, invece" disse Candy. Questa volta non si limitò a bloccare il suo colpo. Posò la mano al centro del petto di suo padre e spinse. Una spinta forte. Suo padre barcollò indietro e protese le mani per afferrare la sedia in cui Melissa ancora dormiva. Ma Candy con fare noncurante gli spinse via la mano, e lui cadde pesantemente. Per qualche istante giacque lungo disteso nell'erba incolta. Poi si alzò e arretrò di alcuni passi. La furia era del tutto svanita, sostituita da un'aria di improvvisa reverenza.
"Che cosa succede?" disse fra sé. Poi, a Melissa:
«Apri gli occhi, donna! Apri quei dannati occhi!»
Lentamente Melissa rispose al richiamo del marito, e mentre i suoi occhi si schiudevano, l'immagine della sognatrice con la quale Candy aveva parlato si spense come una candela sulla quale qualcuno ha soffiato.
Melissa scosse il capo e si alzò. Si guardò intorno, come se si aspettasse di vedere ancora Candy lì in piedi. Ciò che vide invece fu suo marito che scrutava il cortile con aria nervosa.
«C'è qualcosa qui con noi?» le chiese. «C'è?»
«Di che cosa parli?»
«Qualcosa mi ha spinto» borbottò lui. Poi, più forte: «Qualcosa mi ha spinto!»
A Melissa ci vollero solo pochi istanti per capire che cosa le stava dicendo.
«Candy...» disse piano, guardandosi attorno. «Sei qui?»
«Candy?» ripeté Bill, e le sue mani si chiusero d'istinto a pugno. «Credi che sia qui? Se è qui, perché diavolo non riesco a vederla?»
Melissa guardò le nocche bianche del marito e cercò di sorridere.
«Va tutto bene, Bill» mormorò.
«Hai detto: sei qui? Perché hai detto così? Dimmelo! E non cominciare a mentirmi. Se c'è una cosa che mi fa arrabbiare, sono i bugiardi.»
«Stavo sognando, ecco tutto» disse Melissa in tono disinvolto. «Stavo sognando Candy, e quando mi sono svegliata ero confusa. Credevo che fosse qui.»
«Ma non c'è?»
Melissa ostentò un'espressione perplessa. «Come potrebbe?» replicò, sfidando Bill a mettere in parole i suoi timori. «Voglio dire, guarda. Siamo solo io e te.»
«Sicuro...»
«È stato solo un sogno.»
«Dannata ragazza» borbottò Bill. «Stiamo meglio senza di lei.»
«Non lo pensi sul serio.»
«Non dirmi che cosa penso o non penso.»
«Lo so che fra voi due non è mai stato facile» disse Melissa. «Ma Bill, è sempre nostra figlia. Ricordi com'eravamo eccitati la notte che è nata?»
Lui grugnì.
«Che notte, Bill. Ti ricordi qualcosa di ciò che è successo la notte che è nata Candy?»
«Chissenefrega.»
«A me importa.»
«Be', a me no.»
Si voltò e andò verso casa. Melissa lo seguì, parlandogli, facendogli ricordare con dolcezza.
«Pioveva, Bill. Ti ricordi come pioveva? E tu mi hai lasciato nel camion...»
«Oh, ecco che ci siamo. Il caro Billy si è dimenticato di far benzina, così la povera Melissa è rimasta al freddo per ore e ore e...»
«Mi lasci finire?»
«Povera Melissa. Certo, non avrebbe dovuto sposarlo, non è quello che ti dicono tutti?»
«Vuoi tacere un minuto?»
Le si fece contro d'improvviso, come se volesse picchiarla. Ma era ancora nervoso, dopo ciò che era successo, e questo lo trattenne, nel caso che la mano invisibile gli desse un'altra spinta.
«Non riguarda me o te» continuò Melissa. «Riguarda Candy. Ho cercato tante volte di dirti che cosa è successo quella notte, ma non hai mai voluto ascoltare. Pensavi che fossi pazza. Ma ciò che è successo quella notte era vero.»
«E che cosa era vero?» chiese lui.
«Sono apparse tre donne. Venivano da un altro mondo, Bill.»
«Sciocchezze.»
«Si chiama Abarat.»
Sogghignò. «Mai sentito.»
«Be', è lì che si trova nostra figlia adesso.»
«E chi lo dice?»
«Lo dice lei, Bill. L'ho vista in sogno. Le ho parlato.»
Bill sgranò gli occhi.
«Credimi...»
«Tu sei pazza, sul serio.» Si portò il dito alla tempia. «È tutto dentro la tua testa.»
«No.»
«Sì! Sì! Sì! Sì!»
«Candy mi ha detto perfino il nome di quelle donne.»
«Oh, davvero?»
«Diamanda, Joephi e Mespa. Fanno parte di una sorellanza che si chiama Fantomaya.»
«Sai, dovresti scriverle, tutte queste sciocchezze. Probabilmente potresti venderle.»
«Non sto inventando, Bill. Candy è là, ad Abarat. Ha visto quelle donne. La stanno aiutando.»
«D'accordo!» disse Bill. «Basta! Non voglio più saperne di queste idiozie.» La sua voce si riempì di sincero disgusto. «Tu e le tue stupide donne! Come se non ci fossero già abbastanza dannate donne sul pianeta.» Voltò le spalle alla moglie e si diresse verso casa. Ma dopo pochi passi si voltò a guardarla.
«La sai una cosa?» disse. «Uno di questi giorni faccio i bagagli e me ne vado.»
«E dove andresti?»
«Conosco dei posti. Potrei andare a Denver, a trovare mio fratello. Tornare a Chicago. Ovunque, ma non qui.» Si voltò e andò alla porta sul retro. «Dovevo andarmene tanto tempo fa.»
E con questo scomparve dentro casa, lasciando Melissa in cortile, disperata. Aveva cercato di raggiungerlo, ma era un muro. Che cosa ci voleva perché le credesse?
Guardò il cielo. Piccoli branchi di nuvole venivano portati dal vento a nord-est.
«Candy» disse, sperando che sua figlia fosse ancora in ascolto. «Se mi senti, tesoro, ti prego, abbi cura di te. Forse uno di questi giorni riusciremo a vedere Abarat insieme. Mi manchi, cara.»
Poi mise da parte la tristezza, in un luogo dove Bill non sarebbe riuscito a vederla, ed entrò in casa a preparare alla sua famiglia degli hamburger per pranzo.
25
Destini
Malingo aveva fatto viaggi straordinari nelle settimane da quando era sfuggito alla schiavitù, ma nessuno era stato mozzafiato come quello che fece in alto sopra le passerelle affollate di Babilonium. Il tessuto azzurro che l'aveva tratto in cielo non sembrava avere molta sostanza: era un abito senza un corpo visibile che lo abitasse. Ma la donna che lo pervadeva gli parlava con molta chiarezza, e fece del suo meglio per rassicurarlo.
«Sta' calmo» gli disse. «Non voglio farti cadere sulla testa di quei poveretti. Sono venuti qui per divertirsi, non per farsi spaccar la testa da un rattopardo.»
Malingo guardò in giù attraverso le pieghe della stoffa. Erano molto in alto rispetto alla terra e si muovevano a notevole velocità. Se fosse caduto, si disse, non sarebbero state le persone là sotto a soffrire di più; sarebbe stato lui.
«Chi sei?» chiese.
«Più tardi.»
«Devo sapere solo questo: ti ha mandato Wolfswinkel? Mi stai riportando a Ninnyhammer?»
«No, no, no. Non sia mai detto.»
«È solo che mi picchiava per il gusto di farlo.»
«Oh, ho sentito parlare delle crudeltà di Kaspar Wolfswinkel» disse la donna nella stoffa. «E pagherà caro per esse, tra poco. Consolati, amico mio. Ogni dolore è ripagato, nella grande ruota. Credimi.»
«Ti credo...» disse piano Malingo, un po' sorpreso di se stesso.
«Tieniti forte, adesso!»
Erano al limitare della Sagra, dove la passerella ben illuminata lasciava il posto a buio e fango, e poi a un paesaggio roccioso che si srotolava verso il mare.
Il volo li aveva portati a nord, stimò; il cielo era più scuro sopra gli stretti che si stendevano davanti a loro che non su quelli dietro. La Sera stava diventando Notte.
«Dove andiamo di preciso?» urlò Malingo sopra il fragore del vento, che diventava sempre più forte via via che filavano verso la costa.
«Lo scoprirai fra qualche istante» gli urlò in risposta la donna nell'abito. «Preparati! Ci attende una manovra complicata. Potresti sentire qualche scossone.»
Malingo spiò una seconda volta tra i lembi schioccanti della sua trasportatrice, e lo rimpianse all'istante. Sfrecciavano verso una superficie di dura roccia.
«Che cosa stai facendo?» ululò. «Ci ucciderai!»
«Allora non guardare!» disse la donna. «Continua a tenerti stretto!»
Malingo non poté fare a meno di guardare, nonostante il consiglio della donna. Volavano dritti verso la dura roccia a una velocità che significava che vi si sarebbero spiaccicati contro, ma all'ultimo momento lo spirito nel tessuto scartò e li portò attraverso una minuscola fenditura tra le rocce. La portatrice sapeva dove andare. Lo fece passare a gran velocità per la fessura senza il minimo incidente, anche se a tratti il pertugio parve farsi così stretto che lui ebbe la certezza che non ce l'avrebbero fatta. Tuttavia si resse al tessuto - che scelta aveva? - e finalmente fu ricompensato dal profumo più dolce che si potesse immaginare: l'odore pulito dell'aria salata di mare.
«Fatti coraggio» annunciò la donna nell'abito. «Ci siamo quasi!» e qualche istante dopo cominciarono a rallentare. Affiorarono dalla crepa e si fermarono a riposare su una roccia umida.
«Ora stai attento» lo avvertì la donna. «Non voglio che tu venga portato via.»
Erano a non più di uno, due metri dal mare, e le onde cozzavano contro le rocce in una furia bianca. Qualche istante dopo essere atterrato, Malingo si ritrovò zuppo da capo a piedi.
«Fa freddo» disse.
«Un po' d'acqua di mare non ti farà del male» disse la vecchia, e mentre parlava la stoffa azzurra si separò e lei uscì da nuove pieghe, mentre il suo spirito diventava solido e visibile. Era vecchia, forse molto vecchia, e i capelli lasciati sciolti le volavano attorno al capo, percorsi dal vento. «Lordy Lou, rattopardo» disse. «È stata una faticaccia. Sei più pesante di quello che sembri.»
«Be', grazie per avermi salvato» disse Malingo. «Ma perché?»
«Be', non l'ho fatto per il mio bene» rispose lei. «O per il tuo, se è per questo. L'ho fatto per...»
«Lasciami indovinare: Candy Quackenbush.»
«Molto bene, rattopardo.»
«Se ti è di qualche conforto, morirei per quella signora.»
«Mi è di qualche conforto» disse la vecchia. «E credimi, so che lo faresti. Ecco perché adesso ti mando a cercarla. Per evitare una doppia tragedia.»
«Non suona bene.»
«Vero» disse la vecchia. «Ma il tempo è essenziale, quindi possiamo muoverci?»
«Per andare dove?»
«Voltati.»
Malingo si voltò e vide che nel buio blu c'era una piccola barca a due alberi, che la ciurma si sforzava di trattenere dall'infrangersi sulla costa: maneggiava bastoni di legno rozzamente sbozzati per evitare che lo scafo venisse sospinto sulle rocce.
«Presto! Presto!» disse la donna col vestito azzurro, e spinse Malingo verso un'asse gettata tra terra e barca. Lui le rivolse uno sguardo dubbioso. L'asse era stretta e scivolosa per via dell'acqua. Ma la vecchia lo spinse così in fretta che i suoi dubbi cessarono in un istante, e fu accolto da una sorridente giovane donna con la pelle scura e i capelli arancio vivo. Accanto a lei c'era una terza donna, con il volto bello ma severo. Aveva un cappotto per lui, che fu certo il benvenuto.
«Andiamo di sotto a rifocillarti» disse, suggerimento che Malingo accolse con gioia. Le donne lo guidarono giù nella stiva, dove un gran fuoco ardeva dietro un'enorme grata di ferro. A Malingo fu offerta una sedia, ma lui disse che preferiva sedersi vicino al focolare. La stanza ben presto si riempì dell'odore pungente di un rattopardo che si asciuga. Lo spuntino promesso arrivò ben presto sotto forma di un sandwich a quattro strati fatto di fette di ropa-ropa ben stagionato e pâté di jabal. Malingo era a metà quando la vecchia - che si era cambiata e indossava abiti asciutti e puliti - tornò dentro e sedette su una delle sedie vicino al fuoco.
«Va meglio adesso?»
«Molto meglio» disse Malingo. Posò il sandwich. «Tu sei Diamanda, vero? Della Fantomaya.»
«Sì.»
«E tu» - e indicò la donna che gli aveva dato il cappotto - «tu devi essere Joephi, vero? E tu Mespa, vero?»
«Tutto giusto» disse Mespa.
«Candy ti ha detto solo i nostri nomi?» chiese Joephi.
«Non ha detto molto di più» rispose Malingo. «È complicata, la ragazza. Va a fondo. Non credo nemmeno che comprenda i misteri che porta in sé.»
«Dubito che chiunque ci riesca» disse Diamanda con profonda gravità.
«Abbiamo viaggiato insieme per quasi otto settimane» riprese Malingo «e stavo cominciando a credere che saremmo stati insieme per sempre, ma poi ecco che scappa via.»
«Ti stava proteggendo» disse Mespa.
«Ma è una strada a due sensi. Lei protegge me, e io proteggo lei. Come faccio a proteggerla se non so dov'è?»
«La ritroverai» disse Diamanda. «La vostra storia insieme ha ancora molta strada da percorrere.»
«Davvero?» disse Malingo, così sollevato che gli vennero le lacrime agli occhi.
«Assolutamente» disse Diamanda. «Adesso dicci: ha dimostrato una buona padronanza della magia?»
«Non quanta desiderava» disse Malingo. «Sapeva che avevo imparato degli incantesimi minori da Wolfswinkel, e continuava a insistere che le insegnassi ciò che sapevo.»
«E tu l'hai fatto?»
«No. Ho resistito parecchio. E poi, quando ho accettato di farlo, è svanita l'occasione.»
«Perché hai resistito?» volle sapere Mespa.
«È come ho detto: va a fondo. Avevo paura di ciò che potevo scatenare in lei. Non sapevo dove sarebbe finita, se avesse avuto veri poteri.»
Diamanda sospirò. «Nessuno di noi lo sa, Mister Malingo» disse, con una nota di tranquillo disagio.
«Nemmeno Candy?» chiese Malingo.
«Soprattutto non Candy.»
«Credo che possiamo essere certi di una cosa» disse Joephi. «Qualunque cosa impari, qualunque cosa diventi, influenzerà il destino di queste isole in modi che nessuno di noi può nemmeno immaginare.»
«Allora che cosa volete che faccia? A parte trovarla.»
«Questo dipende interamente da come saranno cambiate le cose per lei quando la troverai.»
«Devo andare da solo?»
«Nella prima parte del viaggio sì» disse Joephi. «Ma quando sarai arrivato a Per Ora, ti unirai a un gruppo di brave e belle persone.»
«Non potete venire con me?»
«Vorremmo poterlo fare» disse Mespa. «Ma gli eventi ci spingono tutti in direzioni diverse, temo.»
«Quindi sta a te trovarla, il più in fretta possibile, e portarla in un luogo sicuro» gli disse Joephi.
«Che posto?»
Diamanda scosse il capo. «Al momento non lo so» disse, la voce rotta dalla disperazione. «Ciò che ti diciamo adesso potrebbe non essere vero tra mezz'ora. Accadono strane cose su ciascuna delle isole, Malingo. Si risvegliano poteri il cui pari avevamo sperato di non rivedere mai più. Esseri che sorgono dal profondo. Esseri che cadono dall'alto dei cieli. Non vi sono certezze, temo. Nessuna. Niente luoghi sicuri, niente cose che sappiamo essere vere ora e che saranno vere anche tra un attimo.»
Malingo era depresso. «Posso chiedere...?» mormorò, poi tacque.
«Dillo» gli disse Diamanda. «Se hai una domanda da fare, falla ora. Potrebbe non esserci un'altra volta.»
«Be', se la metti così» disse Malingo. «Qual è la cosa peggiore che potrebbe accadere?»
Diamanda fece un gran sospiro. «Temo che sia fin troppo facile rispondere» disse. Guardò le sorelle, poi di nuovo Malingo. «La Venticinquesima Ora è il luogo in cui i nostri nemici cercheranno di colpire. Se mettono a repentaglio quell'Ora, allora la nostra stessa esistenza sarà in dubbio.»
«Potrebbero farlo?» chiese Malingo. «Potrebbero prendere la Venticinquesima Ora?»
«In numero sufficiente» rispose Diamanda, «e con il giusto genere di strategia, sì. Non ci sono dubbi: le forze che si radunano contro di noi sono formidabili. Mater Motley sta creando da anni un esercito di ricuciti, nascosto dal buio della Mezzanotte. Se li libera, e la Guglia di Odom soccombe al suo esercito, se i misteri che la Venticinquesima Ora contiene diventano vulnerabili all'attacco e alla dissacrazione, allora la vita che viviamo - sia qui che nell'Altromondo - verrà distrutta per sempre. Calerà un caos profondo, e tutto ciò che ha reso la vita possibile su queste isole - tutta la gioia, tutto l'amore, tutto il significato - verrà estinto. Sarebbe come se noi e il nostro mondo non fossero mai esistiti.»
Malingo si prese la testa fra le zampe. Anche se era vicino al fuoco, all'improvviso si sentì mortalmente freddo.
«Come è possibile?» disse. «Succedono tutte queste cose terribili e nessuno lo sa.» Alzò appena la testa. «Ascoltate!» disse. «Si sente la musica della Gran Sagra da qui! Decine di migliaia di persone che danzano e cantano e... tutte ignare.»
«Oh, lo sanno» disse Diamanda. «La gente di tutte le Ore sa da molto tempo che faccende foriere di enormi conseguenze sono nell'aria. Si destano dal loro sonno, piangono e hanno paura, e non sanno perché. Si sono sentiti indotti a baciare i loro bambini, all'improvviso, come se temessero di non rivederli.»
«Eppure non ne parlano» disse Malingo.
«Qualcuno sì» disse Joephi. «Ma Houlihan ha sistemato quasi tutti. Sono scomparsi all'improvviso.»
«Terribile» commentò Malingo.
«Quanto al resto, gli uomini e le donne normali delle Ore devono solo vivere la loro vita. Amare i loro figli. Invecchiare in pace. Così voltano le spalle a ciò che sospettano.»
«C'è qualche speranza?»
«Certo che c'è speranza, rattopardo» disse Diamanda con forza. «Ma devi lavorare. Ti lascerò in compagnia di mia sorella Mespa. Ha le sue istruzioni. È stato un piacere parlare con te, Malingo rattopardo. Joephi, vuoi venire con me? Abbiamo molto da fare.»
Le due donne se ne andarono, e per un momento o due Malingo scrutò il fuoco, riflettendo sulla conversazione appena avvenuta. Infine Mespa disse: «Quando sei pronto, mio Capitano...»
«Scusa?» disse Malingo. «Tuo che cosa?»
«È l'ordine di Diamanda» spiegò Mespa. «Devi essere il Capitano di questa nave. Si chiama Lud Limbo.»
«Perché io?»
«Perché Diamanda si fida di te.»
«Ma io non so come guidare una nave.»
«Be', allora imparerai viaggiando, d'accordo? Candy ha fiducia in te, e anche noi. Vuoi salire in coperta?»
Uscirono alla morbida luce delle stelle. C'erano lanterne accese ovunque sull'imbarcazione, e le fiamme illuminavano una folla - alcuni umani, molti no - riunita al centro del ponte. Non appena Malingo fu visibile, levarono un urrà da far tremare gli alberi, con suo grande imbarazzo.
«La tua ciurma, Capitano» disse un Saltamare con l'uniforme zuppa. Era una creatura sottile ed eccentrica, e sembrava nervoso. «Sono Deaux-Deaux, il tuo primo ufficiale.»
«Oh» disse Malingo, ancora troppo sorpreso dall'improvvisa elevazione di grado per pensare con lucidità. «Felice di conoscerti.»
«Allora, vuoi fare un discorso alla ciurma?» gli chiese Deaux-Deaux.
«Su cosa?»
«Sulla nostra destinazione, forse? O su quello che faremo una volta arrivati?»
«Prima che tu dica una parola» intervenne Mespa, «lascia che ti auguri buon viaggio, Capitano...»
Malingo prese Mespa per un braccio e la scortò con dolcezza dove il suo primo ufficiale non potesse sentire. «Non posso farlo» disse. «Non posso guidare un'intera nave.»
«Ma certo che puoi» gli disse lei, guardandolo dritto negli occhi. «Ci saranno molte altre richieste bizzarre per te prima che questa guerra sia finita, credimi. Abbi coraggio. Fai parte di qualcosa di vasto e buono, Malingo.»
E così dicendo si avvolse l'abito addosso, e in quel momento il tessuto si raccolse in volute e sparì, portando via con sé colei che lo indossava.
Malingo la guardò svanire, sperando disperatamente che potesse ancora tornare e annunciare a tutti che era solo uno scherzo. Ma se n'era proprio andata. E con la sua partenza gli occhi della ciurma - gli occhi della sua ciurma - puntarono tutti su di lui, in attesa, era chiaro, che dicesse qualcosa.
Doveva parlare. Bene o male, doveva parlare.
Contò in silenzio fino a tre. Al tre distolse lo sguardo dal cielo vuoto e guardò la ciurma riunita.
«Buonasera» disse. «Io sono Malingo. Sono un rattopardo. E sono il vostro Capitano...»
26
Una visita per Kaspar
Kaspar Wotfswinkel ricordava con penosa chiarezza la ragazza che non molto tempo prima era venuta a bussare alla sua porta. Era stato tanto sciocco da aprire, tanto sciocco da lasciar entrare la mocciosa. Per un po' aveva pensato di dominare quella povera bambina perduta e convincerla ad avvelenare le gattemolli che erano i suoi guardiani a Ninnyhammer. Non poteva farlo lui perché i maledetti animali erano immuni alle sue magie. E non poteva nemmeno fuggire da loro finché erano vivi. Quale modo migliore di liberarsi dei suoi gatti da guardia che indurre la bambina innocente che era giunta sulla sua soglia a dar loro del pesce avvelenato?
Ma non era stato così semplice. Nemmeno un po'. Intanto, la ragazza non era stupida come sembrava. Aveva ben presto capito che lui tramava qualcosa. E poi, a peggiorare le cose, aveva congegnato nella sua testolina d'asina il progetto di convincere il suo rattopardo schiavo a liberarsi. Aveva infiammato la creatura con un sacco di discorsi incendiari sulla libertà e roba del genere, e lui, Wolfswinkel, aveva ricambiato con un po' di magia seria, che purtroppo gli era sfuggita di mano. Una volta conclusa la faccenda, la casa di Wolfswinkel sulla collina era stata fatta a pezzi: Malingo il rattopardo, con la sua liberatrice Candy Quackenbush, era fuggito. E le gattemolli non erano state avvelenate.
La sua vita agli arresti domiciliari, che era stata parecchio deprimente prima che la ragazza venisse a bussare alla sua porta, fu molto più deprimente dopo che lei fu partita. Aveva perso il suo schiavo. Ora doveva spolverarsi i mobili, servirsi il rum e ripulirsi i libri. Peggio, gli mancava il semplice piacere di picchiare il rattopardo e umiliarlo. Era solo e annoiato, ed era colpa della ragazza.
Aveva protestato con l'Alta Corte delle Ore sull'ingiustizia di tutto ciò, ma nessuno dei giudici aveva voluto concedergli un'udienza. In effetti, le cose erano peggiorate. La corte aveva mandato un battaglione di soldati a pattugliare la sua collina, con le gattemolli che prestavano loro l'acume dei loro occhi infallibili. Era logorante, per un uomo che aveva un'alta opinione di sé come Wolfswinkel, essere trattato come un criminale di bassa lega. Ed era cominciato tutto quando si era impietosito per un'estranea. Malediceva il momento in cui era successo. Di più, malediceva lei. Non c'era vendetta abbastanza feroce, punizione abbastanza impietosa da soddisfare la sua rabbia bruciante. Passava un'ora dopo l'altra praticamente a bagno nel rum, a inventare le cose che avrebbe fatto alla ragazza quando finalmente le avesse messo le mani addosso.
E ci sarebbe riuscito. Non ne aveva il minimo dubbio. Sicuro. Le attuali condizioni in qualche modo limitavano le sue possibilità, ma alla fine si sarebbe presentato un modo per fuggire da quella maledetta prigione. E allora, il suo primo atto da uomo libero sarebbe stato trovare quella Quackenbush e farle rimpiangere di aver mai visto la sua porta d'ingresso, e tanto più di aver bussato.
Quella notte, tuttavia, qualcos'altro oltre alla vendetta occupava la sua attenzione. Ninnyhammer si trovava alle Dieci in Punto, quindi era sempre buio sull'isola, e tranquillo, di solito. Ma quella notte aveva sentito un sacco di strani rumori. Prima un bel po' di urla - alcune intrise di panico - giù al porto. Poi qualcuno aveva sparato alcuni colpi. Per un breve periodo c'era stato silenzio, poi una seconda esplosione di fuoco e altre urla, provenienti stavolta non da una ma da parecchie direzioni.
Wolfswinkel era salito sulla gran cupola appollaiata in cima alla sua casa per cercare di avere una visuale migliore. La cupola funzionava come la lente di un telescopio, consentendogli una vista ravvicinata degli eventi; e aveva anche un'acuta visione notturna. Grazie ancora una volta all'intrusione della Quackenbush, era stata gravemente danneggiata, ma Wolfswinkel riusciva ancora a vedere molto di più con essa che a occhio nudo. Sorseggiando il suo bicchiere di rum, passeggiò per la cupola incrinata, scrutando il paesaggio di Ninnyharnmer bagnato dalla luce lunare. Ecco altre urla, questa volta più vicine a casa, e fasci di luce a perforare l'oscurità della sera.
"Che cosa succede là fuori?" si chiese.
Era la stessa domanda - o una variazione - che si ponevano i soldati del Nono Cavalleggeri di Hobarukus, in pattugliamento a perquisire le pendici e le macchie all'interno dell'isola. Stavano cercando un nemico che era sbucato dal mare mezz'ora prima sferrando un attacco a sorpresa che aveva causato una decina di perdite e il doppio di feriti in tre minuti. E quelli erano solo i soldati I cavalli, carramasi bianchi purosangue, erano stati abbattuti in pari numero.
La domanda era: chi era ad attaccare?
Fu il Sergente Massoff, che aveva appena visto tre dei compagni venire uccisi davanti ai suoi occhi, a dare al Capitano Cruss la risposta più dettagliata.
«Ce ne sono solo tre, per quanto riusciamo a capire» rispose Massoff. «Non sono nemmeno tanto grandi: uno o due metri, quando si alzano sulle zampe posteriori. Ma hanno la testa coperta d'osso: osso nudo, lucente, biancogiallastro. E avanzano contro i nostri carramasi e ci abbattono.»
«Be', perché non risalite in sella?»
«Non possiamo, signore» disse un altro soldato, che aveva il volto ruscellante di sangue. «Il colpo sferrato all'animale gli paralizza il cuore. Muoiono all'istante. Metà delle perdite sono state di uomini che tentavano di rialzarsi da sotto i loro cavalli.»
«Quindi queste creature fanno lo stesso agli uomini? Un colpo al cuore?»
«No, signore» rispose Massoff. «Il cappuccio di osso scivola indietro per un minuto, ed è allora che si vede la faccia. Be', ho detto faccia; è più una bocca, sul serio. Tutta foderata di denti. È questo che uccide gli uomini, signore. I denti. È orribile, signore, quello che fanno questi esseri. Voglio dire, è...»
«Sì, Massoff, sì. L'ho visto coi miei occhi. È chiaro che abbiamo un problema. Non sappiamo che cosa sono queste creature, e ci stanno massacrando.»
Nell'oscurità si levò un urlo strappacuore. «Dobbiamo anche scoprire che cosa vogliono. Perché sono venuti?»
«Vengono per me!» disse Kaspar, danzando una breve anticipata danza di gioia. «Ecco che cosa succede là fuori! Qualcuno finalmente è venuto a liberarmi!»
«Non varcheranno le nostre difese» disse Jimothi Tarrie.
Lui, il più umanoide tra le gattemolli, era in piedi in un boschetto di alberi di pirastrega, e scrutava i mostri in avvicinamento lungo la collina. Dietro di lui c'erano trenta, quaranta gattemolli. Si reggevano su quattro zampe e lui su due, ma avevano questo in comune: erano tutti guerrieri temprati dalla battaglia. «Qualunque cosa sia necessario fare, dobbiamo evitare che questi esseri arrivino alla casa del mago.» Si rivolse alle sue truppe. «Qualcuno ha già visto qualcosa del genere?»
L'assemblea di gattemolli tacque. Quel nemico era qualcosa di nuovo.
«Lo sospettavo» disse Jimothi Tarrie. «Se nessuno di voi ha mai visto bestie del genere nelle vostre molte vite, devo dedurre che bestie del genere non sono esistite fino a poco tempo fa. Qualche forma di magia perversa le ha create.» I suoi enormi occhi verdi si fecero tristi. «Per quelli di voi che si avvicinano alla nona vita: fate attenzione! E voi, giovani, con molte vite da spendere, gettatevi addosso a quegli esseri con tutte le vostre forze, ma sappiate che potreste consumare tutte le vostre esistenze a lottare e lo stesso non riuscire ad arrestare la marea. Quindi non siate eroici per il gusto di esserlo. Se mi sentite annunciare la ritirata, allora vi ritirerete, mi avete capito tutti? Sento che avremo battaglie più grandi da combattere nel prossimo futuro, mi dispiace dirlo, e non voglio che gettiate via le vostre vite inutilmente.»
Guardò su per la collina, verso la cupola. Il volto di Kaspar Wolfswinkel, enormemente ingrandito e deformato in modo grottesco, era schiacciato contro la parte di vetro non infranta.
«D'altro canto...» disse. «Non mi piace l'idea che quella cosa lassù» - e puntò un artiglio verso Wolfswinkel - «fugga attraverso Abarat. Se le voci che sento in queste notti sono vere - e arrivano da tutte le parti, raccontando le stesse terribili storie - allora non possiamo permetterci che un manigoldo come Wolfswinkel vada in giro per le isole, se possiamo evitarlo. Ci saranno fin troppi guai causati dai suoi simili.»
«Che cosa avete sentito dire, signore?» chiese a Jimothi uno dei soldati-gattemolli.
«Oh, solo che le forze del nemico aumentano di ora in ora. E che alla fine potrebbe essere la presenza di un solo essere da una parte o dall'altra a fare la differenza tra vincitori e sconfitti, nella guerra che si avvicina.»
«Guerra, signore?» disse un'altra gattamolle.
«Sì, guerra. E il primo vero conflitto avverrà qui, stanotte. Quindi date buona prova di voi, gattemolli. È per i libri di storia!»
Non ci fu tempo di dire altro.
Un rumore nel buio all'improvviso si fece più forte, e gli alberi di pirastrega tremarono finché i boccioli caddero in una pioggia rossa, mentre il nemico avanzava verso la compagnia di gattemolli.
Dalla cupola Wolfswinkel osservò il macabro spettacolo come un bambino eccitato, parlando fra sé in una decina di lingue - mescolate in modo insensato - nel suo entusiasmo.
«Gvarda mmm! Lofuoco! 'Sblud, 'sblud on das tallyman. Oh, la colpola! Altra colpola, sìvi! Gvarda Malanin. Molle - pus muori, molle - pus muori! Laodamia tee; ewe et taud. Blebs a merrio, eh? Wanton! Blebs a merrio! Sool a salis pidden. Zuberratium! Ha!»
Spiaccicava una smorfia di giubilo sulla finestra tutte le volte che una delle gattemolli cadeva per l'ultima volta (avendo consumato tutte le sue nove vite), urlando tante e tante volte la stessa frase disgustosa:
«T-pus muori! T-pus muori!»
Non era difficile, anche da lontano, comprendere le sorti della battaglia. Era un massacro. I soldati che erano stati sconfitti sulle colline si ritiravano per rimpolpare i ranghi delle gattemolli, ma le bestie dalla testa d'osso che avevano fatto una strage sulla riva erano rapide ad aprirsi la strada assassina tra i felini. Il giubilo di Wolfswinkel cresceva in modo proporzionale al numero di corpi, umani e di gattemolli, che restavano immobili nell'erba alta.
Ma la battaglia non era ancora finita. Quando capì che il limite degli alberi non poteva essere mantenuto, Jimothi Tarrie guidò un piccolo contingente di gattemolli lontano dal massacro, con l'intenzione - suppose Wolfswinkel - di sferrare un attacco finale a sorpresa. Jimothi era astuto, Wolfswinkel dovette concederglielo. Inseguiva furtivamente il nemico con la massima cura, usando la sua dimestichezza col territorio per contribuire alla strategia. Non c'era una gola o un masso o un cespuglio sulla collina che Jimothi e i gatti non conoscessero. Pedinavano le bestie d'osso con assoluta cautela, e il mescolarsi della luce del fuoco e degli spuntoni d'erba nascondeva la loro pelliccia a strisce.
Ma alla fine dovettero attaccare; e con tutto il loro coraggio e le arti di guerrieri, non poterono opporsi alla terribile efficienza delle bestie d'osso. Una dopo l'altra, le gattemolli caddero. E quelle che si levarono per consumare un'altra vita e un'altra e un'altra infine restarono a corto di resurrezioni, e non si levarono più.
Alla fine Jimothi ammise l'inevitabile. Le gattemolli avevano perso la battaglia. Le bestie d'osso, o quello che erano, avevano conquistato la collina. Continuare a combattere avrebbe implicato solo un'inutile strage. Riluttante, suonò la ritirata; e con riluttanza le gattemolli sopravvissute, non più di un manipolo, abbandonarono il campo, portando con sé i feriti.
«Le bestie hanno Wolfswinkel tutto per loro» disse Jimothi. «Per quello che vale. E che vadano tutti all'inferno per lo spargimento di sangue di quest'ora.»
Non appena Wolfswinkel capì che le gattemolli si ritiravano, e che sarebbe stata solo questione di tempo prima che i liberatori giungessero sulla sua soglia, andò a prepararsi. Ultimamente si era lasciato andare; o così gli disse lo specchio. La sua barba era cresciuta, e i capelli erano un nido di ratti. Il vestito giallo era sporco (per fortuna ne aveva diciannove, tutti di colore e taglio identici) e il davanti della sua camicia era incrostato di pezzi di torta di papaveri e gelato di sanguisuga, oltre alle inevitabili macchie di rum.
Non ebbe il tempo di fare il bagno, così si cosparse di un'acre colonia che aveva comprato in un emporio di Commexo City appena prima di essere arrestato per omicidio. Poi si mise un vestito pulito, fece del suo meglio per tagliuzzare di fretta la barba, si ficcò in testa tutti e sei i cappelli (decuplicando così il suo potere) e andò verso l'ingresso ad aspettare i visitatori.
Prima che arrivasse alla porta, tuttavia, qualcosa vi sbatté contro così forte che i cardini cedettero e quella volò via, vorticando sulle piastrelle e mancando Wolfswinkel di pochi centimetri. Quando la nuvola di polvere si fu depositata, una creatura varcò la soglia ed entrò. Era una delle bestie con l'elmo d'osso che avevano versato tanto sangue tra i soldati e le gattemolli. Wolfswinkel fece qualche passo indietro, timoroso di quello che avrebbe potuto fargli. Dov'era il suo padrone? E perché c'erano fili di oscurità che sbucavano dalle punte delle dita dell'essere, intrecciandosi in figure complicate attorno a lui?
Non era il solo mistero. Altre due creature si resero visibili, alla sinistra e alla destra della prima. Ciascuna aveva una mano che sanguinava buio nell'aria, intrecciandosi con le figure della bestia al centro. Si stavano connettendo in un modo misterioso.
Wolfswinkel era intimidito. Ma sapeva che non era il caso di darlo a vedere. Rimase dov'era.
«Che cosa volete da me?» disse.
I tre risposero gettando indietro le teste ossute in perfetta sincronia ed esalando lunghi, inquietanti sospiri. I teschi parvero perdere la loro rigidità ed emisero a loro volta filamenti di materia d'ombra che s'intrecciò. Stavano diventando uno, le teste d'osso si saldavano in un solo essere, dall'identità inconfondibilmente umana.
Allora è questo il loro padrone, comprese Wolfswinkel. C'era una sola mente; una sola volontà divisa fra i tre, che ora si stava rivelando. La sua umanità non fu di gran conforto per Wolfswinkel: emanava ancora un'aria minacciosa, e lui era codardo fino al midollo. Ma non aveva un luogo dove fuggire. Poteva solo restare E a guardare mentre il processo continuava e il muso delle tre bestie si ripiegava in una sola entità. Gli occhi, quando divennero chiari, erano grigi e implacabili, la bocca una stretta linea sottile. Fumose pieghe di tessuto ne avvolgevano il corpo dalla testa ai piedi, e pareva che ci fossero piccole facce spiaccicate nella trama.
Infine una voce si levò dalla forma ancora in corso di trasformazione: una voce di donna.
«Cielo, cielo, piccolo mago» disse, e le parole fecero tremare tutto un po'. «Tu vivi nel caos!»
Wolfswinkel si guardò attorno. La donna aveva ragione.
«Non è colpa mia» disse. «Una volta avevo uno schiavo. Un rattopardo. Ma mi è stato portato via...»
«Sì, l'ho sentito dire.»
Le tre forme si erano completamente fuse in un solo corpo, ora. Le bestie d'osso erano scomparse, rimpiazzate da una vecchia vestita con quello che sembrava un abito fatto di bambole fuori moda.
«Sai chi sono io?» disse.
«Siete la donna con ago e filo» rispose il mago. «Siete Mater Motley.»
La vecchia signora sorrise. «E tu sei Kaspar Wolfswinkel, l'assassino dei cinque membri del Circolo Magico di Per Ora.» Kaspar aprì la bocca per professarsi innocente, ma Mater Motley respinse le sue proteste con un gesto della mano. «Francamente se avessi ucciso dieci o mille maghi non mi potrebbe importare di meno. Non sono venuta qui per assoldare un assassino.»
«Oh! E allora perché?»
«Non so quanto sai dei miei piani» disse lei. «Ho tenuto nascosta gran parte dei miei affari. Trovo che così sia più sicuro. Altrimenti la gente comincia a intromettersi. Anche così, forse hai sentito dire qualcosa?»
«Più di qualcosa» rispose Wolfswinkel. «Non posso fare molto rinchiuso quassù, ma certo posso ascoltare.»
«Che cosa, esattamente?»
«Oh... voi certo sapete benissimo quanti stralci e frammenti ci sono là fuori. Nel vento. Nel modo in cui cadono le stelle. Nelle forme delle nuvole. Io studio queste cose con molta cura. Non ho molto altro da fare.»
Mater Motley fu sorpresa. Si era aspettata di trovare piuttosto un tipo borioso in Kaspar Wolfswinkel. Ma dietro quella faccia brutta e amareggiata, con lo sguardo aspro e la bocca rivolta all'ingiù, c'era qualcuno di cui poteva fare un uso migliore di quanto avesse ipotizzato.
«Vi sorprenderebbe sapere ciò che sento» continuò lui. «Ma ho i miei modi di fare ciò che fate voi.» Sorrise. «Di intrecciare le cose.»
«Oh, allora è questo che faccio io, vero?»
«È ciò che mi risulta» disse. «Mi risulta che vivete nella Tredicesima Torre della fortezza di Iniquisit; e voi e le vostre sarte cucite di continuo. Notte su Notte su Notte. Non dormite mai.»
«Ogni tanto dormo» disse Mater Motley. «Ma cucio anche allora.»
«State facendo i ricuciti.»
«Sì.»
«Un esercito.»
«Sì.»
«Così che una di queste Notti...»
«Basta così, mago. Hai detto quello che volevi.»
«Ma per quello che capisco, è vostra intenzione conquistare le isole.» Mater Motley non ribatté. «Potete fidarvi di me. Lo giuro» disse Wolfswinkel.
«Mi fido solo delle mie sarte.»
«Di vostro nipote no?»
«Non posso. Non al momento. Ha certi problemi, sai. Ed è questa la ragione che mi ha portato qui.»
«Naturalmente sarei solo felice di essere d'aiuto, ma sono rinchiuso qui.»
«Sei appena stato liberato, mago.»
«E le gattemolli?»
«Dimenticale. Io e te andremo via da questa tua prigione senza incontrare ostacoli.»
«Ma manderanno altre truppe a riprendermi.» Esibì un sorrisetto presuntuoso. «Ho ucciso cinque persone.»
«Lascia che mandino le truppe. Non m'importa. Sono dell'umore giusto per versare altro sangue.» Fissò i ritratti appesì alla parete. «Sono queste le tue vittime?»
«Sì. Erano maghi. Tutto il loro potere era nei loro cappelli...»
«Quindi hai ucciso i tuoi amici per i loro cappelli?»
«Sì.»
«Piano, mago, piano. Francamente avevo sentito dire che eri un isterico alcolista, ma questo incidente con la Quackenbush sembra averti indurito un po'.»
«Sono pronto a tutto.»
«Sei pronto a giurarmi lealtà?»
«Ma certo. Ma certo.»
Wolfswinkel cadde in ginocchio davanti a Mater Motley e afferrò il pesante orlo del suo abito, premendo il volto nelle pieghe.
«Sono vostro!» disse. «Dovete solo ordinare.»
«Ho bisogno che tu vegli su mio nipote. Tienilo d'occhio senza farti notare. Non mi fido del suo istinto quando c'è di mezzo quella ragazza dell'Altromondo. Giuro che ha una qualche presa su di lui che io non capisco.»
L'espressione di Wolfswinkel si fece astuta. «Be'... ho sentito dire certe cose...»
«Sulla ragazza?»
«Brandelli e frammenti.»
«Be', non m'interessano le voci» disse Mater Motley. «Quando potrai venire da me con vere prove, allora starò a sentire. Però non tornare alle vecchie abitudini, mago. Niente alcol. Niente omicidi, a meno che non lo ordini io. Ti sto assoldando per osservare. Non per spettegolare. Per osservare. Se solo per un attimo avrò la sensazione che tu stia andando oltre i limiti della tua utilità, ti farò eliminare. Non ti ridarò alle gattemolli. Ti farò spellare e riempire di fango di Todo. Ci siamo capiti?»
Di nuovo Wolfswinkel baciò l'orlo del vestito di Mater Motley. «Ho capito. Davvero. Dovete solo darmi un ordine.»
«Be', puoi cominciare a lasciar andare il mio vestito.»
«Oh. Sì.»
«Adesso alzati.»
Wolfswinkel si alzò. «Che cosa avete bisogno che faccia?»
«Ecco una lettera. Portala a un uomo chiamato Julix Mirethak. Vive a Churngold, a Soma Piuma.»
«Come ci arrivo?»
«Prendi la più piccola delle navi che troverai giù al porto sul lato più presto di quest'Ora. La lettera dà istruzioni sia a te che a Mirethak su come procedere. Ci incontreremo fra un giorno, in un posto che ho scelto io. Muoviti in fretta e senza farti notare inutilmente, Wolfswinkel. Se scopro che hai infranto il patto del silenzio fra noi - e lo scoprirò, se lo fai - ti aspetta lo spellamento. Ora prendi la lettera e sparisci dalla mia vista.»
Kaspar prese la lettera dalle mani di Mater Motley, si ritrasse e fece un inchino stravagante. Poi aprì la bocca per un ultimo proclama di imperitura devozione, ci ripensò e invece uscì in fretta dalla casa. Indugiò sul fianco della collina appena il tempo necessario a vedere dove il sangue delle gattemolli, un tempo sue guardiane, scintillava nell'erba. Poi, fischiettando un motivo informe tra sé e sé, andò a cercare una barca, da uomo libero.
27
Rapimento
Quando Candy aprì gli occhi, riuscì a pensare solo a quanto desiderava abbracciare sua madre, tenerla stretta ed essere abbracciata a sua volta. Era una cosa così semplice, ma in quel momento non c'era niente che desiderasse di più.
Si sedette sul letto del cuoco dove aveva fatto il suo sonnellino e si guardò intorno. La cucina era molto tranquilla. Il vento era calato mentre lei dormiva, e così i rami coperti di foglie e boccioli non frusciavano più sopra di lei. Non c'erano nemmeno uccelli che parlottavano o cantavano: o erano volati via o si tenevano per sé le loro canzoni. E la cosa più strana di tutte forse era l'assenza di qualunque voce dell'appena risuscitata tribù dei Totemix. Quando si era addormentata facevano un allegro fracasso, come per annunciare: Siamo vivi e liberi! Candy non avrebbe potuto immaginare un rumore più lieto. Ma ora il loro frastuono era stato zittito.
«Filth» chiamò. «Dove sei?»
Di nuovo silenzio. Mentre dormiva era successo qualcosa: ma cosa?
«Filth» disse, a voce più alta. «Sei lì?»
Non ci fu risposta, così Candy andò a cercarlo. Lo stesso silenzio inquietante nel quale si era svegliata in cucina si era impossessato di tutto il Palazzo del Crepuscolo. Nei corridoi e nelle sale non c'era un rumore. Non che gli uccelli non ci fossero sui rami: c'erano, li vedeva. Avevano solo deciso di non cantare, per qualche motivo.
«Filth» gridò di nuovo. «Dove sei? Filth!»
Infine udì un urlo soffocato, e seguendolo di sala in sala scoprì lo scimmio disteso a terra, imbavagliato, le braccia legate dietro la schiena e le gambe legate alle caviglie. Gli tolse il bavaglio.
«Lordy Lou!» disse lui, sputando il sapore del bavaglio. «Credevo che per me fosse giunta la fine, sul serio.»
«Chi è stato a farti questo?»
«Non pensare a me. Non è per me che è venuto, è per te!»
«Di nuovo: chi?»
«Non so come si chiama. Un giovane con l'espressione malvagia. Devi andare via di qui!»
Gli slegò le mani, e la prima cosa che fece fu spingerla via da sé.
«Vai!» le disse.
«Non senza di te.»
«È molto nobile da parte tua» disse Filth. «Davvero. Ma... per essere del tutto sincero, non credo che tu sia la persona con cui è più sicuro andare in giro al momento. Non col Ragazzo Bestia che ti cerca. È letale, quello là.»
«Tu sai chi è» disse Candy.
«Ho i miei sospetti» ammise Filth. «Ma non è questo il tempo e il luogo di discuterli. Devi andare prima...» Si fermò a metà frase. Poi disse: «Oh, cielo.»
«Cosa?»
«Troppo tardi. È qui.»
Candy si guardò intorno. «Non vedo nessuno.»
«Oh, è un tipo astuto. Sa come usare le ombre.» Mentre parlava, Filth faceva dardeggiare lo sguardo intorno, cercando il "tipo astuto", chiunque fosse. «Vuoi andare?» disse, dando a Candy un'altra spintarella.
«Da che parte?»
«Dove vuoi! Basta che tu vada!»
Candy prese a indietreggiare, ma con la coda dell'occhio vide qualcuno che cominciava ad avanzare verso di lei. Fu solo una brevissima occhiata. Colse il suo volto pallido e i lunghi capelli scuri che lo circondavano, ma fu tutto. Poi si voltò. «Corri!» sentì Filth urlare, e lo fece, seguendo il sentiero tortuoso che l'aveva portata al Palazzo del Crepuscolo.
Ma il suo inseguitore era rapido. Dopo una decina di passi di corsa sentì il rumore dei suoi piedi nudi che percuotevano il mosaico, sempre più forte via via che si avvicinava.
Non le piaceva l'idea di essere colpita alle spalle. Così si fermò e si voltò a fronteggiarlo. Ne valse la pena anche solo per vedere lo spavento sul viso del giovane: i suoi occhi incavati all'improvviso diventarono quasi comicamente grandi. Poi parve riaversi, e riprese a correre verso di lei, sfilando qualcosa dalla giacca. Pensando che fosse un pugnale, Candy alzò le mani per tenere la lama lontana dal corpo, ma lui levò l'oggetto - non un pugnale, una borsa! - sulla sua testa e lo abbassò.
Candy cominciò a urlare e divincolarsi, ma c'era qualcosa nella borsa che aveva un aroma di fiori appassiti, e il suo potere la stordì.
«Rilassati...» sentì dire la voce del giovane. «Andrà tutto bene. Lasciati andare, Candy...»
("Candy" pensò lei. "Sa come mi chiamo! Come fa a sapere come mi chiamo?")
E poi, mentre formulava la domanda nella mente, il profumo fece uno strano scherzetto. Udì una voce dentro la testa che diceva: "Adesso devi dormire."
«No...» borbottò lei, la lingua spessa e greve nella bocca.
"Solo per un po'" ribatté la voce.
E un momento dopo non ci fu più un momento dopo.
Seppe quanto aveva dormito, con precisione, perché la voce del profumo era lì a dirglielo quando si svegliò.
"Hai dormito per trentasette minuti e undici secondi. Ora svegliati, se vuoi."
Non le servì un secondo invito. Tese la mano e armeggiò col cordone che aveva stretto la borsa attorno al suo collo. Lo allentò e si sfilò la borsa dalla testa. Non era più dentro il Palazzo del Crepuscolo. Il cielo era scuro e pieno di stelle. Non riusciva a ricordare un momento dei suoi viaggi in cui ci fossero state più stelle visibili di adesso. Erano così belle che le ci volle un enorme sforzo per distogliere lo sguardo dallo spettacolo sopra di lei e osservare il luogo in cui il suo rapitore l'aveva portata.
Era in una piccola barca con un solo albero, che dondolava spinta da un vento deciso. Dall'altra parte dell'imbarcazione, seduto a gambe larghe sul ponte, intento a fare strani gesti con le mani sopra una vasta mappa dell'arcipelago, c'era il suo rapitore: un ragazzo più o meno della sua età. Aveva i capelli neri e lucidi, che pendevano in unti boccoli.
«Che cosa fai?» gli chiese Candy.
Il ragazzo alzò lo sguardo, un po' nervoso. «Sto... evocando la nostra rotta» disse.
«Rotta per dove?»
«Per dove stiamo andando» rispose lui con un sorriso luminoso ma nient'affatto affidabile.
«Be', ovunque tu mi stia portando» gli disse Candy, «io ti ordino di riportarmi nel posto da dove sono venuta.»
«Oh, sul serio?»
«Sì» rispose lei. «Sul serio.»
«Perché?»
Candy era incredula. «Come sarebbe, perché? Perché mi hai rapito, e non lo apprezzo.»
«Oh, andiamo, non volevi certo stare in quel vecchiume.»
«Andiamo un accidente!» disse Candy, alzandosi e facendo oscillare la barca. Il suo fare noncurante la rendeva furiosa. «Mi hai ficcato una borsa sulla testa e mi hai rapito!» gli ricordò. «Dovresti finire in prigione per questo!»
«Ci sono stato, in prigione. Un sacco di volte. Non mi fa nessuna paura.» Si alzò; era un po' più basso di lei, osservò Candy. «E comunque ho solo obbedito a un ordine.»
«Oh, molto originale. Come se fosse una scusa che nessuno ha mai usato. D'accordo» disse Candy. «Se è da lì che vuoi cominciare, cominciamo da lì. Un ordine di chi?»
«Non te lo posso dire» disse lui.
«Oh, non puoi?» disse lei, avvicinandosi. Il suo gesto improvviso fece dondolare la barca ancora più violentemente.
«Attenta!» urlò lui. «Ci farai rovesciare!»
«Non me ne importa. So nuotare!»
«Anch'io, ma queste acque sono pericolose. Quindi smettila!»
Imitando il suo tono petulante, Candy disse: «Perché?»
«Perché...» Lui s'interruppe: aveva capito di essere stato incastrato. «Sei pazza!»
Candy gli scoccò uno sguardo feroce. «Lo penso anch'io, ultimamente» disse, facendo oscillare apposta la barca ancora più forte.
«Non mi aveva detto che sei pazza!» disse il ragazzo, afferrandosi ai lati della barca così stretto che le sue nocche diventarono bianche.
«Chi non te l'ha detto?» chiese Candy, minacciando di rendere il dondolio ancora più forte. «Andiamo, sputa!»
«Il mio capo. Mister... Mister Masper.»
«E quanto ti paga questo Mister Masper perché tu mi faccia fare questa gitarella in barca?»
«Undici paterzem.»
Candy rimase delusa. «Valgo solo undici paterzem?»
«Come sarebbe? Io non ho mai avuto undici paterzem. È una fortuna.»
«Non conosco nemmeno nessun Mister Masper.»
«Be', lui conosce te. È un uomo molto potente. Molto influente. E molto curioso di te. Ha sentito un sacco di voci su di te. E vuole incontrarti in carne e ossa.»
«Quindi tu mi hai ficcato in testa una borsa e mi hai stordito.»
«Il profumo non è stato garbato?» disse il ragazzo, sinceramente preoccupato. «L'ho usato perché è garbato.»
«Che sia stato garbato o no, non è questo il punto. E smettila di fare quella faccia e quegli occhioni da mi dispiace tanto, perché non funziona. Sai, io ho due fratelli. Quindi conosco ogni giochetto da maschi. È stato lui. Qualcun altro mi ha detto di farlo. Non lo faccio più.»
«Non sei spaventata, eh?»
«No. Adesso gira la barca e riportami al Palazzo del Crepuscolo. Puoi dire a Mister Masper che dovrà accontentarsi delle voci.»
«Non posso controllare la barca. Le ho fatto un incantesimo, e adesso non posso disfarlo. Quando ti sei svegliata non stavo decidendo la rotta. Stavo cercando di rallentarci. Lo vedi come andiamo veloci.»
Candy in effetti aveva notato la velocità della barchetta. Filava rapida sull'acqua. Ma non diede credito a questa scusa più di quanto ne desse alla sua espressione da bambinetto smarrito.
«Se hai fatto un incantesimo alla barca» gli disse, «allora lo puoi anche togliere.»
«Non mi hanno ancora insegnato a farlo» ribatté il ragazzo.
Per un attimo Candy guardò il suo stravagante incantatore-rapitore in un silenzio deluso. Poi disse. «Dimmi che stai scherzando.»
«No. Lo giuro.»
«Tu... tu, sciocco.»
«Non sono uno sciocco» protestò il ragazzo. «Mi chiamo Letheo.»
«Allora, Letheo, se non sai come fare a rallentare l'andatura di questa barca, che cosa succederà quando arriveremo a destinazione?»
«Be'... ehm... supponevo che...»
«Sì?»
«Cioè... è che... speravo...»
«Sì?»
«... che la barca lo sapesse.»
«Che la barca sapesse che cosa?»
«Che eravamo alla fine del viaggio. Allora avrebbe rallentato da sola. E ci avrebbe portato sulla spiaggia... dolcemente.»
«Non so ancora molto di magia, ma ciò che ho visto finora è parecchio violento. Non credo che verremo deposti da qualche parte dolcemente.»
«Smettila di guardarmi così» disse Letheo. «Non ho pensato. Volevo solo arrivare in fretta. Credevo che forse così mi avrebbe pagato più paterzem. Sai, un premio per la pronta consegna.»
«Dammi la mappa, Letheo.»
«Perché?»
«Perché se non l'hai notato, la tua barca continua a prendere velocità, e se non ci inventiamo qualcosa prima di toccar terra, sarà la fine del viaggio in più di un senso.»
Da come il suo sguardo dardeggiava intorno, Candy capì che il ragazzo sapeva che lei aveva ragione.
«Oh, per le Torri» disse Letheo, quasi fra sé. «Che cosa ho fatto?»
«Dammi la mappa.»
Letheo prese la mappa che teneva ferma con un piede e la diede a Candy. La velocità della barca la faceva sbatacchiare come un uccello terrorizzato. Candy non poté far altro che mettersi a quattro zampe, spianare la mappa sulle tavole inzuppate che erano il fondo della barca e studiarla meglio che poteva così.
«Dove ci sta portando?» urlò a Letheo.
Lui si mise a quattro zampe dall'altra parte della mappa e puntò un dito su una delle isole.
«Efreet!» disse lui. «È una delle Isole Esteriori!»
«Sì, so qualcosa di Efreet. Ho conosciuto della gente che ci abita. Hai modo di stabilire la nostra posizione precisa?»
«Ti faccio vedere» disse Letheo. «Ecco un po' di magia che conosco. Tieni ferma la mappa.»
Candy fece del suo meglio per obbedire, ma era difficile. Anche nel ventre della barca, il vento continuava a insinuarsi sotto la mappa e a gonfiarla.
«Che cosa farai?»
«Guarda» ghignò Letheo. Si sputò sulla mano e strofinò le palme con vigore. Poi fece un tubo grossolano stringendo le mani a pugno allentato, ne pose una sopra l'altra e ci soffiò dentro, forte. Una pagliuzza di luce rossa (lo stesso rosso dello scafo della barca) sfrecciò dalla sua mano e colpì la mappa.
«Ecco dove siamo» disse, non senza una nota d'orgoglio per il risultato ottenuto.
Candy scrutò il granello rosso - che si muoveva in fretta sulla mappa gonfia - con un misto di curiosità e disagio. Anche in scala così minuscola, la barca si avvicinava all'Isola di Efreet a una velocità straordinaria.
Guardò oltre il parapetto della barca. Era buio, ovviamente, ma credette di vedere la vaga forma dell'isola davanti a loro. E la barca non dava segno di rallentare. In effetti continuava ad accelerare, e colpiva le onde con tanta violenza che sembrava solo questione di tempo prima che una di esse la urtasse fino a spaccarla. Se fosse successo, sarebbero stati nei guai, guai seri. Il pulviscolo che le sferzava la faccia era freddo ghiacciato. Se fossero stati scagliati in acqua, l'ipotermia avrebbe ben presto avuto la meglio. E se non fosse stato così, be', c'erano sempre i soliti predatori. I golosi mantizac; i malvagi piccoli pesci puzzle, chiamati puzzoli dai pescatori.
«Siamo nei guai seri!» disse, fissando Letheo con un misto di rabbia e delusione. «Ci farai uccidere tutti e due, solo perché volevi un premio per la consegna!»
Lui non aveva niente da dire. Distolse lo sguardo da lei e lo spostò sulle rocce vicine all'isola. «Oh, no...» disse piano. «Kythrus.» Candy seguì il suo sguardo e vide che le rocce erano abitate da creature coi piedi palmati che li studiavano con occhi avidi. Una per una scivolarono giù dalle rocce nell'acqua gelida e avanzarono verso la barca.
Candy tornò alla mappa. C'era una magia che poteva fare lei per toglierli da quel guaio? Scrutò la mappa da sinistra a destra e da cima a fondo. Ma quei segni non significavano nulla per lei. Non provava nessuna delle sensazioni che sapeva essere connesse al potere. La sua lingua non riusciva a evocare parole magiche; nessuna improvvisa consapevolezza le balenò in mente.
«Che cosa fai?» le urlò Letheo sopra il frastuono di acqua e vento.
«Sto cercando di pensare a un modo di usare la mia magia.»
«Possiedi la magia?»
«Un po'.»
«Allora salvaci! Ti prego!»
Candy guardò di nuovo in alto. Nevicava a Efreet: il paesaggio era grigio e bianco. E il vento portava fiocchi ghiacciati contro il suo viso.
«Non mi aspettavo la neve» disse Letheo.
All'improvviso un ruggito sorse dall'acqua, e un attimo dopo la barca colpì uno dei kythrus con tale violenza che lo uccise. Candy scorse l'occhio giallo della bestia mentre la barca si inclinava. Afferrò il sedile per evitare di essere scagliata fuori. Intanto la barca colpì un altro animale, che sembrava intenzionato a rovesciarli, perché si sollevò dall'acqua sotto lo scafo. Letheo emise un ululato di terrore mentre la barca volava nell'aria.
«Tieniti forte!» urlò Candy.
Vide il volto di lui per un attimo mentre ricadevano verso l'acqua: ogni traccia di finzione era spazzata via. Era solo un ragazzo terrorizzato...
Poi la barca colpì l'acqua, e lo scafo s'infranse. Spruzzi di acqua gelata si levarono tra le crepe. Ed eccoli ripartire, sbandando tra i kythrus, e la velocità parve aumentare via via che si avvicinavano a destinazione. Ogni speranza che Candy potesse aver nutrito di salvarli con la magia era dimenticata. La mappa era sparita. Riusciva a stento a restare aggrappata alla barca.
E poi urtarono la spiaggia. La prua si frantumò come un guscio d'uovo e la neve cominciò a entrare mentre l'estremità aperta della barchetta scavava nei detriti come una grossa pala. La neve alta fu la loro salvezza. Rallentò gradualmente l'avanzata della barca, frenandola col suo peso. Si muovevano ancora quando la barca raggiunse il limitare degli alberi, ma a un centesimo della velocità di quando avevano raggiunto la spiaggia. Candy guardò in su, oltre il caos di tavole infrante, neve e schegge di ghiaccio in cui giaceva, appena in tempo per vedere un albero morto davanti a loro.
«Ci siamo!» urlò a Letheo, anche se non era più sicura che si trovasse ancora a bordo. Poi strinse le braccia attorno alla panca al centro della barca e si tenne stretta. Ci fu un urto tremendo e la barca si spaccò, e Candy si ritrovò ricoperta da pezzi di legno. Poi sentì la barca rovesciarsi, e perse la presa sul sedile, scivolando nella neve. Rimase lì lunga distesa per qualche istante, a riprendere fiato. Poi, sputando briciole di ghiaccio e pezzi di foglie strappate, si tolse la neve dagli occhi.
"Fortunata, fortunata, fortunata" disse fra sé mentre controllava braccia e gambe in cerca di ossa rotte. A quel che pareva non c'erano danni seri, tuttavia, il che era quasi un miracolo, vista la velocità con cui la barca aveva raggiunto l'isola. E in verità l'incantesimo iniziale di Letheo non aveva ancora abbandonato alcune delle tavole più grandi sparse tra gli alberi: si contorcevano e rotolavano come se fossero ancora in grado di correre.
Quanto all'incantatore, l'impatto l'aveva scagliato molto lontano dal naufragio, perché Candy non vide traccia di lui. Vide invece un sentiero di distruzione che si snodava all'indietro tra gli alberi e sulla spiaggia fino alla riva. C'erano degli angeli custodi ad Abarat? Perché di sicuro lei ne aveva uno.
I suoi occhi si erano già abituati alla strana luce di laggiù: luce di stelle sulla neve. Le mostrava una foresta che si estendeva fino a dove arrivava lo sguardo. Era strano vedere alberi verdeggianti al buio e con quel freddo pungente. Molti erano in piena fioritura, e i loro grassi fiori color del fuoco non sembravano scoraggiati dalla neve.
Poi ecco la voce di Letheo che gridava il suo nome.
«Ti sento» gridò in risposta. «Continua a parlare.»
«Sono qui!» urlò Letheo, come se lei potesse sapere esattamente dov'era "qui".
Candy seguì la sua fragile voce fino al limitare del disastro e lo trovò disteso in fondo a un basso declivio, rannicchiato in un penoso fagotto.
«Sei vivo» disse. «Non riesco a credere che ne siamo usciti vivi tutti e due.»
«Be', non ancora» disse lui.
«Cosa intendi dire? Siamo qui, no? Siamo al sicuro.»
«No, questa è Efreet. Ci sono cinque Bestie su questa isola. Creature terribili.»
«Come i kythrus, vuoi dire? Non erano...»
«No, non come loro. Loro sono solo... animali. Questi sono mostri.»
«Oh, d'accordo» disse lei, ricordando ciò che le aveva detto Mizzel su Babilonium: Abbiamo delle bestie feroci lassù, aveva detto. «Be', io non vedo niente» disse Candy, speranzosa. «Forse siamo dalla parte sbagliata dell'isola.»
Letheo scosse il capo. «Sono qui» disse. «Ci guardano da lontano, e decidono chi mangia chi.»
«Vuoi star zitto?»
«È vero!»
«Be', non voglio saperlo. Dobbiamo muoverci prima di morire congelati.»
«Mi fanno male le costole, e anche la testa.»
Prima gli guardò la testa. Aveva una grossa, profonda ferita sopra l'orecchio destro. «Ti resterà una bella cicatrice.»
«Non sarà la prima» ribatté Letheo in tono pratico. «Comunque, il tessuto cicatriziale non è più forte della pelle normale?»
«Hmm» disse Candy. «Se dev'essere una stravagante esortazione a farsi del male, non la accetto. Adesso lascia che ti guardi le costole.»
«No, grazie.»
«Sì» disse lei con decisione. «Non preoccuparti, ho dei fratelli. Non è niente. Sei solo un altro ragazzo.»
Lui si sbottonò la camicia con una certa riluttanza, e Candy capì perché era così timido. C'era una strana macchia pulsante sul suo busto, turchese scuro in alcuni punti e viola in altri. A ogni fiotto di colore la pelle da liscia diventava squamosa. Oltre alle squame, aveva parecchi rozzi tatuaggi sulle braccia sottili. «Così adesso lo sai» disse, ritraendosi mentre la sua pelle si contorceva e si trasformava. «Ho un po' della bestia in me.»
«Fa male?»
Si sfiorò con dita leggere il ventre da rettile. «Sì. Quando mi sopraffa del tutto, è terribile. Sai, il fatto è che Mister Masper ha una medicina che lo fa andar via.»
«E te la dà...»
«Quando eseguo i suoi ordini.»
«Ma tu non vuoi sempre farlo?»
«No» disse Letheo. «Non sempre.»
«Ma quando avrai di nuovo bisogno della medicina?»
«Presto...» Letheo continuò a guardare altrove. «Forse Mister Masper ne avrà un po' in casa per me.»
«Non vedo luci là fuori. Questa sua casa è grande?»
«Enorme.»
«La barca deve averci portati sulla spiaggia sbagliata.»
«O forse siamo in anticipo» disse Letheo, alzandosi lentamente.
«Cosa vuoi dire?»
«Forse siamo in anticipo» ripeté lui, come se il significato fosse ovvio. «Forse la casa non è ancora arrivata.»
«Si sposta» disse Candy.
«Sì. Si sposta. Se siamo fortunati, la vedremo atterrare.»
"Lordy Lou" disse fra sé Candy. Era come se tutte le volte che credeva di essere arrivata alla fine delle meraviglie di Abarat, e che niente potesse lasciarla sbalordita, esso avesse qualcos'altro da svelare.
«Ascolta» disse Letheo.
«Che cosa senti?»
«Abbiamo dei visitatori.»
Candy ascoltò. Letheo aveva ragione. C'erano degli animali vicino. Udì un lungo ringhio minaccioso. E all'improvviso nel vento c'era un odore acre, come se la bestia stesse marcando il territorio.
«Siamo nei guai, vero?» mormorò Candy.
«Siamo morti» disse Letheo.
«Non ci hanno ancora presi.»
«È solo questione di tempo...»
Allora meglio muoversi» disse Candy. «Andiamo.»
Letheo fece una smorfia avvicinandosi a lei.
«Mi spiace che ti faccia male» disse Candy. «Ma essere divorati farà molto più male.»
28
Una riunione
Le tre donne della Fantomaya sedevano in tre antiche sedie dall'alto schienale sulla spiaggia sud della Venticinquesima Ora e contemplavano una tempesta muoversi dalle ombre di Gorgossium per braccare gli stretti tra la Mezzanotte e l'Isola di Ninnyhammer. Joephi, grazie alla seppia di cui condivideva al momento l'incredibile vista (l'animale era aggrappato al suo viso come un paio di occhiali viventi), vedeva lontanissimo. Tutti i dettagli della tempesta e i suoi effetti - le nubi temporalesche che sputavano lampi spostandosi a ovest, le navi negli stretti che sprofondavano nel mare montuoso - le erano chiarissimi. E riferiva tutto ciò che vedeva alle altre due.
«Che cosa succede alla casa del mago?» le chiese Mespa.
«Adesso do un'occhiata» disse Joephi, e si concentrò sulle vette di Ninnyhammer. La notizia della fuga di Kaspar Wolfswinkel le aveva raggiunte solo poco prima. Erano venute lì a vedere ciò che si poteva vedere e a discutere nel dettaglio ciò che stava succedendo.
«Vedo moltissimi corpi distesi ai piedi della collina» disse Joephi.
«Gattemolli?» chiese Diamanda.
«E alcune truppe regolari.»
«Chi può aver fatto una cosa del genere?» chiese Diamanda.
«Be', non sarà difficile scoprirlo» osservò Mespa. «Wolfswinkel aveva pochissimi amici. Ammesso che ne avesse. È difficile immaginare che qualcuno abbia rischiato la vita per liberarlo.»
«Be', qualcuno l'ha fatto» osservò Joephi. «E solo perché era rinchiuso non vuol dire che non stesse lavorando in segreto. Tramando di mettere insieme una banda. Era un uomo astuto, a quanto ricordo. Brutto e privo di fascino, ovviamente, e un ubriacone tremendo. Ma astuto.»
«D'accordo» disse Diamanda. «Per un momento accettiamo la tua teoria. Stava tramando con qualcuno. Ma chi?»
«Qualcuno che voleva l'aiuto di un mago...»
«Perché supporre che l'abbiano preso perché avevano bisogno di lui?» disse Mespa.
«Come sarebbe?»
«Ha ucciso cinque brave persone. Per impossessarsi dei loro cappelli. Forse qualcuno imparentato con una di quelle cinque persone ha deciso che la sua punizione non era abbastanza severa.»
«Che cosa? E l'ha portato via per giustiziarlo?» disse Joephi. «Assurdo.»
«Sto solo dicendo...»
«È un'idea ridicola...»
«Signore, signore» cominciò a dire Diamanda. Ma non finì. Invece si levò incerta dalla sedia, spaventata.
«Oh... no...» mormorò.
Joephi si tolse dolcemente la seppia dal volto. «Che cosa c'è che non va, Diamanda?»
«Candy.»
«Candy?» disse Mespa. «Cosa c'è? Credi che abbia qualcosa a che fare con questa faccenda di Wolfswinkel?»
«No, non è quello. All'improvviso ho avuto una chiara visione di lei! Che cosa crede di fare, quella ragazza?»
«Dove si trova?» chiese Mespa.
«Non lo so di preciso» rispose Diamanda, chiudendo gli occhi. «È buio, ovunque sia; molto buio.»
«Be', è un inizio, immagino» disse Joephi.
«E ci sono... piume... no, no, non piume... è neve.»
«Fitta o leggera?» chiese Joephi. «Riesci a capirlo? Ci sono stati turbini a Monte Screzio nell'ultimo paio d'ore.»
Gli occhi di Diamanda scrutarono la scena che vedeva nella mente; le pupille si rovesciarono avanti e indietro cercando indizi. Infine disse: «È fitta. La neve è alta.»
«È lassù?» si chiese Joephi. «Sui Monti Pino, forse? Sull'Isola dell'Uovo Nero?»
«No, non è nemmeno quella. Ci sono degli alberi. Un sacco di...»
Tutte e tre le sorelle pronunciarono il nome del luogo dove si trovava Candy all'unisono.
«Efreet.»
«Che cosa ci fa laggiù, in nome del cielo? Quel posto pullula di mostri.»
«Be', è là che si trova» disse Diamanda in tono incolore. «E più presto la portiamo via dall'isola e da quelle bestie, meglio è.» Si allontanò di un paio di passi dalle sorelle, borbottando piano un comune incantesimo tra sé. Il colore del suo abito all'improvviso si fece incerto. Il nero e viola della trama lasciò il posto all'azzurro, al bianco e ancora all'azzurro. L'orlo danzò come se fosse stato affidato a uno stormo di uccellini invisibili.
«Vai da qualche parte?» chiese Mespa.
«A Efreet, è ovvio» rispose Diamanda. «Qualunque cosa faccia la nostra Candy laggiù, avrà bisogno d'aiuto.»
«Allora dovremmo andare tutti» disse Joephi.
«No, no, no. Voi due dovete scoprire che cosa succede a Ninnyhammer. Wolfswinkel deve essere severamente punito, se ha a che fare con questa violenza. Quindi indagate con cura. Scoprite i fatti.»
«Sei sicura di riuscire a cavartela da sola a Efreet? Lo sai quanto odi il freddo.»
«Se è un modo educato di chiedermi se non sono troppo antica per andare ad affrontare le Cinque Bestie di Efreet da sola, lasciate che vi ricordi ciò che disse Santa Catham di Dette: "Noi metteremo in ginocchio il Nemico Infernale con la saggezza, non coi bastoni".»
«Diamanda, la cara Santa Catham fu divorata viva per i piedi nell'arco di diciannove giorni. Non credo che dovresti citarla.»
«D'accordo. Allora ammetto che andare è una follia. E se incontro una morte terribile laggiù, prometto che un giorno tornerò in questo posto e potrete prendere il mio fantasma per farci esercizio. Nel frattempo, voi andate a Ninnyharnmer e lasciate andare me a Efreet, così possiamo risolvere questo maledetto problema.»
Le sue sorelle chiaramente non erano convinte, ma Diamanda non intendeva cambiare idea. «Dobbiamo muoverci in fretta e suscitando il minimo di attenzione possibile. Voglio che il numero più ristretto di persone possibile sappia della presenza di Candy. In questo momento si trova in un luogo molto delicato. Sono sicura che la visita al Palazzo del Crepuscolo deve averla a dir poco confusa.»
«Non rimarrà confusa a lungo» disse Joephi. «Non è una stupida.»
«No, non lo è.»
«Presto o tardi metterà insieme tutti i pezzi dell'enigma della sua giovane vita, e quando lo farà dovremo affrontare molto più che un groppo di emozioni contrastanti.»
«Lo credi?» disse Mespa. «Se io fossi in lei, adorerei scoprire di...»
«No, invece!» disse Diamanda. «Saresti furiosa! Ti sentiresti ingannata e imbrogliata e usata. E vorresti sapere chi è il responsabile.»
«Hmm» disse Mespa. «Forse.»
«Allora che cosa facciamo?»
«Che cosa possiamo fare? Ciò che è fatto è fatto. Comunque non sono sicura che cambierei una sola cosa, se avessi l'opportunità di rifare tutto dall'inizio. Sì, abbiamo corso dei rischi. Ma erano per le ragioni giuste. Non abbiamo nulla di cui scusarci.»
«Speriamo solo che la ragazza sia d'accordo.»
Quell'osservazione zittì le tre donne per un po', e rimasero a fissare l'acqua per qualche minuto mentre i gabbiani ruotavano in alto, emettendo i loro strilli da anime afflitte.
Infine Diamanda disse:
«D'accordo. Non posso perdere tempo qui. Ho del lavoro da fare.»
Si avvolse negli abiti ora azzurri e borbottò una parola che attivò l'incantesimo. Le vestì all'improvviso si gonfiarono, riempiendosi di vento...
«Ricordate questo» disse, e pronunciò alcune parole finali di saggezza prima che gli abiti la portassero via. «Lavorate con delicatezza. Abbiamo a che fare con la vita delle persone, qui.»
«Mi pare» osservò Joephi «che avremmo dovuto pensarci molto tempo fa.»
Diamanda non ebbe modo di ribattere. Il movimento dei suoi abiti azzurro cielo divenne più insistente, e lei venne portata via in un attimo. La sua forma volante si confuse con i cieli incantatori che si levavano come uno specchio della marea sopra la Venticinquesima Ora.
TERZA PARTE
Un tempo di mostri
... cacciata dal Giardino del Paradiso per i loro peccati,
la Prima Coppia rubò frutti da ogni albero che vide
avviandosi ai cancelli, a dispetto del Creatore.
E fuori dal Giardino, rannicchiati contro il Muro,
i due divorarono i Frutti, mangiandoli uno dopo l'altro,
finché i loro corpi si ammalarono per quel troppo,
e vomitarono tutto.
E i Semi dei Frutti vennero versati nella polvere,
E da essi sorsero i Mostri del Mondo,
Nati nello sporco,
Destinati a ignorare l'esistenza di una cosa come l'Amore...
Dal Libro Sacro di Fiafeefo
29
Il Capitano conversa
Nonostante l'iniziale riluttanza a prendere il timone della buona nave Lud Limbo,Malingo capì ben presto i vantaggi di tale posizione. Un Capitano è un re sull'acqua, e anche se l'elevazione a quel rango portava con sé notevoli responsabilità, offriva anche parecchie comodità. Dieci minuti dopo che la nave aveva lasciato Babilonium, il Capitano Malingo era seduto in una poltrona straordinariamente soffice nella sua cabina arredata squisitamente, e gli stavano versando un boccale assurdamente spumoso di birra Micklenut. Per ordine del suo nuovo Capitano, Deaux-Deaux stava descrivendo nel dettaglio le circostanze che li avevano riuniti in quel viaggio.
«È stata un'idea delle streghe» disse. «Hanno questi attacchi profetici, sapete, quando vedono un po' di questo e scorgono un po' di quello. Naturalmente non vedono mai tutto di tutto. Sarebbe troppo opportuno. Ci dev'essere sempre un po' di ambiguità. Non è mai semplice.»
«Ma ti hanno annunciato una profezia?» chiese Malingo.
«Sì, sicuro.»
«Ossia...?»
«Be', quando l'abbiamo decifrata abbiamo capito che ci sarà un'ultima guerra.»
«Hmm.»
«Lo so. Potevamo predirlo anche noi.»
«Ma noi non l'abbiamo fatto. Loro sì. Una guerra tra noi e la Notte, come ai vecchi tempi?»
«Presumibilmente.»
«Hanno detto chi potrebbe guidare l'opposizione?»
«No. Ma può esserci qualche dubbio? Il nemico è Christopher Carrion. È lui che ha più da guadagnare se la Notte vince il Giorno... per così dire.»
«Ti hanno dato qualche idea di ciò che sta tramando?» chiese Malingo.
«Solo vaga, ma è...»
«Che cosa?»
«Lasciatemi finire. È così assurda che credo sia solo una menzogna, una voce che Carrion e sua nonna hanno messo in circolazione.»
«Perché dovrebbero?»
«Come azione diversiva rispetto a quello che progettano sul serio.»
«Ah. Allora, qual è questa voce?»
«Be', è abbastanza semplice» disse Deaux-Deaux. «Pare che abbiano in progetto di creare una Notte permanente.»
«Che cosa?»
«Sì. Avete sentito bene. Una Notte permanente su tutte le isole... per tutto il tempo.»
«Come intendono ottenerla?»
«Non lo so. Ma le donne della Fantomaya sembrano convinte che sia vero. Ecco perché vogliono che riuniamo tutti coloro che sono dalla parte del Giorno. Così possiamo affrontare il nemico tutti insieme, fianco a fianco.»
«È la ragione di questo viaggio.»
«Precisamente.»
«Ma chi troveremo?»
«Persone molto importanti, secondo le sorelle. Una volta c'era una banda di combattenti guidata da Finnegan Hob.»
«Hob? Vuoi dire il giovane che doveva sposare la Principessa Boa?»
«Sì. Non l'ha sposata, ovviamente, perché la sua amata principessa è stata assassinata...»
«... il giorno delle loro nozze.»
«Giusto.»
«E che cos'è successo a Finnegan?»
«Ha avviato una Guerra Santa contro l'intera stirpe dei draghi, giurando che non sarebbe stato soddisfatto finché non li avesse sterminati fino all'ultimo; non è un giuramento da poco, ovviamente. Ci sono un sacco di draghi là fuori. E alcuni di loro... be', lo sai che possono andare sottoterra. Possono restare nascosti per generazioni.»
«Allora sta ancora cercando?»
«Nessuno lo sa per certo. A quanto pare, un gruppo di suoi amici ha deciso che con i venti di guerra nell'aria dovevano andare a cercarlo. Hanno noleggiato una barca chiamata Belbelo,capitanata da un tipo che si chiama Hemmet McBean. Sono partiti da Yebba Dim otto settimane fa.»
«E?»
«E non si è più saputo niente da allora.»
«Non è una bella cosa.»
«No, non lo è.»
«Che cosa dicono le Fantomaya?»
«Non credono che siano morti.»
«Perché no?»
«Perché hanno visto abbastanza del futuro per credere che Finnegan Hob vi giocherà un ruolo importante. Come parecchie persone che sono andate a cercarlo.»
«Chi sono?»
«C'era una guerriera chiamata Geneva Peachtree, dell'Isola dell'Uovo Nero. C'era un amico di Finnegan chiamato Tom Due Pollici e un altro tipo - un giocatore - chiamato Tirabaci Carlotti. Anche se secondo le streghe lui non compare nei loro sogni del domani, quindi chissà che cosa gli succederà. O gli è già successo.»
«E poi?»
«Aspetta un po'. A quanto pare c'è una ragazza chiamata Tria, una trovatella dotata di strani poteri. È attraverso di lei, credo, che le donne della Fantomaya hanno avuto il contatto. E gli altri sono una famiglia che ho conosciuto un po' quando lui è stato portato via dall'Altromondo con Candy...»
«John Dispitto e i suoi fratelli?»
«Precisamente.»
«Candy mi ha raccontato tutto di loro.»
«I fratelli vivono sulle corna che ha in testa, lo sai?» disse Deaux-Deaux. «Oltre a Dispitto, ci sono John Dubbio, John Pizzico, John Broda, John Salice, John Sonnecchio, John Filetto e John Serpente.»
«Quindi messi insieme sono una bella banda.»
«Sicuro.»
«E le donne non sanno se hanno trovato Hob?»
«No, almeno non l'ultima volta che ci ho parlato. Sanno solo da Tria che la banda era diretta verso Per Ora.»
«Per Ora, eh? Com'è laggiù? Voglio dire... le Tre del Pomeriggio... dovrebbe essere l'ora della siesta.»
«Oh, non credo che nessuno a Per Ora riposi granché» disse Deaux-Deaux. «È un posto assai imprevedibile, per quanto capisco. Tutto è in uno stato costante di flusso. Le cose crescono in un batter d'occhio e muoiono in un altro. Non so se qualcuno ha mai mappato l'isola come si deve, perché sembra che si trasformi di continuo.»
«Sembri molto sicuro che ci arriveremo» disse Malingo.
Deaux-Deaux gli fece un gran sorriso. «Ma sicuro» disse. «Abbiamo un Capitano meraviglioso.»
«Sei troppo gentile» disse Malingo, e rise.
Quando il Saltamare fu uscito dalla sua cabina, Malingo vi rimase per un po', rimuginando sulle stranezze dei tempi recenti. Chi avrebbe mai pensato che sarebbe diventato Capitano di una nave che solcava l'Izabella; e in tempi così eccitanti e spaventosi? Anche se non era il Capitano della Lud Limbo da molto (e qualcosa gli diceva che non sarebbe stata una carriera lunga una vita), almeno avrebbe vissuto una grandiosa avventura. Che cambiamento aveva avuto luogo nella sua esistenza! E naturalmente doveva tutto a una persona, una sola: Candy Quackenbush. Se non fosse venuta nella casa con la cupola sulla collina di Ninnyhammer - e quel che è più, se non avesse sfidato Wolfswinkel - Malingo sarebbe stato ancora sotto le grinfie del mago.
Immaginandola ora impegnata ad affrontare il mostruoso mago, Malingo provò un fiotto di nostalgia per la compagnia di Candy. Non c'era stato un momento nei giorni trascorsi insieme in cui avesse desiderato di essere altrove se non lì accanto a lei, ad ascoltare le sue espressioni di meraviglia e sdegno; a scambiarsi battute sciocche e dividere canzoni e fette di pasticcio del pellegrino. In quel breve arco di tempo era diventata la sua più cara amica; e ora ne sentiva la mancanza.
Guardò fuori dalla cabina le ampie acque selvagge dell'Izabella.
«Ovunque tu sia, mia signora» disse, «abbi cura di te. Avremo storie ben stravaganti da raccontarci quando tutto questo sarà finito.»
30
Le Bestie di Efreet
«C'è modo di riuscire a farti muovere più in fretta?» disse Candy a Letheo.
Lui si asciugò una striscia di sangue dall'angolo dell'occhio. «Sicuro» disse. «Portami in braccio.»
«Molto divertente.»
Un ruggito si levò dalle distese innevate dietro di loro, e le vibrazioni furono così potenti da scuotere una polvere di neve dai rami sopra di loro.
Il rumore indusse Letheo a scoccare una timorosa occhiata indietro.
«Un Waztrill» disse.
«Sai riconoscere un animale dal suo ruggito?» disse lei, mentre cominciava a battere i denti dal freddo.
«Ti ho detto...»
«Sì, non sono animali. Sono Bestie di Efreet. Mostri.»
«Giusto. È diverso.»
«Sono sicura che mi spiegherai perché se ne usciremo vivi.» Ridusse la voce a un sussurro. «Che aspetto ha un Waztrill?»
«Di solito ha la testa rosso vivo. Il corpo è maculato e la coda...»
«Ha delle spine nere?»
«Giusto. Come fai a saperlo?»
«Perché ce n'è uno a cinquanta metri» disse Candy, accennando oltre la spalla sinistra di Letheo.
«Oh. Mio. Lordy. Lou.»
Molto, molto lentamente Letheo seguì la direzione del suo sguardo. Il Waztrill in questione era un enorme esemplare della sua specie. Era alto tre metri e mezzo fino al ventre, e cinque o sei dalla sommità del capo. Il suo alito erompeva dalle narici in nuvole di aria grigia. Sulla sua schiena parecchi uccelli dal becco affilato frugavano sotto le placche squamose dell'armatura, in cerca dei parassiti commestibili che vi pullulavano.
«Ci sta guardando» disse Candy. Gli occhi del mostro erano minuscole capocchie di spillo bianco nella grottesca maschera scarlatta della testa. Ma Candy non aveva dubbi: il suo sguardo era puntato su di loro.
«Corriamo o ci arrampichiamo?» chiese a Letheo.
«Arrampicarsi non serve. Ci scuoterebbe giù da un albero. E se corriamo, ci raggiungerà in pochi balzi.»
«Allora che cosa facciamo?»
«Suggerisco di camminare molto lentamente nella direzione opposta. Probabilmente ci seguirà, ma forse - dico forse - se crede che noi siamo convinti di non essere il suo pasto, allora se ne convincerà anche lui.»
«Se lo dici tu.»
«Continua a guardarlo. Non togliergli gli occhi di dosso neanche per un momento.»
«Non preoccuparti» disse Candy. «Non ho intenzione di guardare dall'altra parte.»
«Mi faresti... un favore?»
«Cosa?»
«Prendimi per mano.»
«Oh...» Candy non riuscì a non sorridere, nonostante tutto. «Sicuro.»
Cominciarono la loro cauta ritirata, le mani appiccicose intrecciate l'una all'altra. La neve aveva cominciato a cadere più fitta negli ultimi minuti, rendendo il Waztrill un fantasma di se stesso.
Molto lentamente prese a inseguirli, e il movimento costrinse gli uccelli sulla sua schiena a rinunciare alla ricerca di parassiti e a levarsi nell'aria ghiacciata.
«Vorrei che avessimo un posto dove andare» mormorò piano Candy.
Non aveva ancora finito di parlare che nell'aria echeggiò un profondo, sonoro rintocco, che scosse la neve da tutti i rami e i boccioli nelle vicinanze.
«Laggiù!» disse Letheo, indicando un punto nell'aria. «Te l'avevo detto!»
Sopra di loro apparve nel cielo una grande, elaborata forma geometrica, illuminata dalla poca luce che riverberava dal suolo coperto di neve.
«La casa» disse Candy.
«La Casa dell'Uomo Morto» disse Letheo.
La forma continuò a calare, e si fece sempre più chiara via via che rotolava giù. Era immensa, e senza dubbio stava per cadere pericolosamente vicino a loro.
«Si romperà» disse Candy: la paura del Waztrill che li inseguiva era finita, dimenticata all'ombra della potente discesa. E cadeva ancora, rivelando dimensioni sempre più mozzafiato.
«Non si romperà» disse Letheo. «Lo fa sempre.»
Aveva ragione. Quando la casa raggiunse un punto a una trentina di metri dalle cime degli alberi, parve scoprire il proprio punto d'equilibrio. Rallentò e si rovesciò in modo che le fondamenta fossero rivolte verso terra. Poi cominciò una discesa controllata per la parte che restava. Solo allora Candy riuscì a distinguere con chiarezza la forma e la stravaganza della casa. A Chickentown non c'era un edificio anche solo vagamente simile; e nemmeno, si disse, nello stato del Minnesota. Tutto in esso era estremo. Le finestre erano alte e strette, quasi come quelle di una chiesa, solo più alte e più strette. Le porte erano ancora più emaciate, e l'enorme tetto assurdamente ripido. Non fu affatto sorpresa che si chiamasse la Casa dell'Uomo Morto. Era come un vasto mausoleo che calava nella foresta, e col suo peso riduceva a legnetti gli sfortunati alberi che si trovavano dove aveva deciso di sistemarsi. Mentre si assestava, le travi antiche cigolarono e dalle pietre annose si levò un sospiro. Poi si fermò, e la neve cadde su di lei così come cadeva sull'intera scena. Dopo pochi secondi parve che fosse lì da sempre.
«Be', è qualcosa che non si vede tutti i giorni» osservò Candy.
«Dovremmo andare» disse Letheo. «Mister Masper ci starà aspettando.»
«Oh, sì. E tu hai bisogno dei tuoi undici paterzem» disse Candy, e tolse la mano dalla sua.
Si voltò a guardare il Waztrill. La bestia sembrava turbata quanto lei dall'atterraggio della Casa dell'Uomo Morto. Qualunque interesse avesse potuto nutrire per Candy e Letheo era stato posticipato, almeno per il momento. Candy aveva appena formulato questo pensiero quando la bestia gettò indietro la testa ed emise un fragore tremendo, che echeggiò avanti e indietro tra gli alberi e rimbalzò sulle pareti della Casa dell'Uomo Morto.
«Che cos'è tutto questo chiasso?»
«Direi che sta chiamando alcuni dei suoi amici» disse Letheo.
Candy non aveva nessuna voglia di aspettare di vedere com'era il resto del clan.
«Se ci insegne ci dividiamo, d'accordo? Così forse lo confonderemo» aggiunse Letheo.
«Tu vai alla porta e fatti aprire da Masper. Non voglio stare qua fuori con quella cosa. O i suoi amici.» Candy diede una spinta a Letheo, che fissava la casa dell'Uomo Morto battendo i denti. «Hai capito che cosa faremo?»
«Sì, non sono stupido.»
In quel momento qualcuno dentro la casa cominciò ad accendere le lampade; e una finestra dopo l'altra s'illuminò di una calda luce che cadeva sulla neve in pozze d'ambra. "Be', sembra abbastanza accogliente" si disse Candy, e lei e Letheo si avviarono, tenendo d'occhio con grande cura il Waztrill.
La bestia li seguì con il suo sguardo porcino, e parecchie volte parve intenzionata a muoversi verso di loro, ma poi cambiò idea. La ragione fu ben presto chiara. Da parecchie altre direzioni venivano le urla di altre bestie, a cui il Waztrill rispose con il suo ululato.